CAPITOLO 31

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Avevo combattuto infinite battaglie, nella mia vita, eppure non ero mai stata tanto nervosa. Spaventata, perfino.

Una singola distrazione da parte mia e le cose avrebbero potuto mettersi davvero male.

Per questo ignorai ogni suono, quando i Giochi iniziarono. Amlach guardò le esibizioni attraverso l'apertura lungo la parete, descrivendomele per filo e per segno, convinto che io lo stessi ascoltando.

Ma io ero concentrata sul mio corpo. Su quanta resistenza avessero i miei muscoli. Su quanto reattivi fossero i miei nervi. Su quanto lontano riuscissero a vedere i miei occhi.

Su quanto potessi essere forte.

Avevo trascorso un mese ad allenarmi per abituarmi alla mia condizione e ormai sapevo bene quali fossero i miei limiti. Tuttavia, avevo il presentimento che lo scontro che stavamo per sostenere avrebbe portato a galla nuove debolezze di cui non ero ancora a conoscenza.

E per me e Amlach sarebbe stata la fine.

«Gladiatori», ci chiamò all'improvviso una guardia affacciatasi sulla soglia.

Tornai presente a me stessa, e il fragore del pubblico sugli spalti che acclamava il vincitore dell'esibizione appena conclusasi sembrò deflagrarmi nel cervello.

«È ora», aggiunse il soldato, e si fece da parte per lasciar entrare un compagno con una spada per mano.

Mi tirai sui e ne accettai una. Era più pesante rispetto a quella con cui mi ero esercitata, e troppo lunga per la mia altezza. La guardia dell'elsa era così corta da proteggermi a stento le dita, il pomello di metallo troppo ingombrante. Per non parlare della lama, che sembrava tutt'altro che tagliente.

Volevano proprio farci rimanere uccisi, su quel campo.

Amlach fece scorrere i polpastrelli sulla propria arma e mi lanciò un'eloquente occhiata obliqua. «Le spade di allenamento sono più affilate, ragazzi», disse, in tono tanto canzonatorio quanto irritato.

L'uomo che ce le aveva consegnate ebbe la decenza di abbassare lo sguardo contrito.

«Venite», comandò l'altro, sbrigativo.

Fummo scortati di nuovo nel dedalo di cunicoli, ma questa volta non ebbi bisogno della sicurezza di Amlach: ogni mio pensiero era focalizzato sulla battaglia imminente.

Quando imboccammo un andito dalla cui fine proveniva molta luce, trassi un respiro trepidante. A metà corridoio, le guardie ci incoraggiarono a proseguire da soli verso il bagliore solare.

Piano, io e Amlach svoltammo nel tunnel in salita, alla cui cima vi era una spessa saracinesca in ferro.

Una volta raggiunta, mi intimai di non sbirciare l'arena, tenendo gli occhi bassi sul terreno polveroso. Le urla dei cittadini, che ci invocavano come degli ossessi, parvero prendere le sembianze di ragni e zampettarmi lungo le braccia esposte, fino a farmi rizzare i capelli dietro la nuca.

Innervosita, infilzai la spada a terra e sciolsi il laccio di cuoio con cui mi ero raccolta i capelli prima di lasciare la villa di Roxior. Mentre ricreavo l'alta coda di cavallo, facendo attenzione a non lasciarmi sfuggire qualche ciocca, percepii lo sguardo intenso di Amlach sul mio viso.

Mi imposi di non incontrarlo.

Di non mostrarmi ancora più debole.

L'attimo dopo, il meccanismo della saracinesca si azionò con un cigolio e la grata cominciò a sollevarsi.

Recuperai la spada, chiusi le palpebre e inspirai a fondo.

«Ti guardo le spalle, elfa».

La voce di Amlach, risoluta e intima al tempo stesso, si insinuò nella mia bolla di concentrazione. Non mi trattenni dall'alzare gli occhi su di lui, restando a fissarlo come se stessi cercando di imprimermi nella memoria ogni particolare del suo volto.

«E io cercherò di non lasciarti morire», replicai con una nota scherzosa.

Lui mi rivolse un sorriso provocante, dunque tornammo a rivolgere l'attenzione davanti a noi. Il dorso delle sue dita sfiorò quello delle mie, trasmettendomi tutta la sua determinazione, ma anche la sua ansia.

La saracinesca giunse alla sommità con un tonfo metallico.

E io e Amlach avanzammo.


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