CAPITOLO 8

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Quando il mare iniziò a calmarsi, lasciai andare i pugnali e slacciai la corda che mi univa all'umano senza mai incrociare i suoi occhi, che avvertivo scottare come fiamme sul mio viso mentre ne scrutavano ogni angolo. Estrassi la mia lama dal tronco e vi salii, spostandomi verso le radici per permettere al soldato di arrampicarsi vicino ai rami. Dopodiché cominciai a scavare nel legno con l'arma per creare una cavità in cui raccogliere un poco di acqua piovana prima che la pioggia cessasse. L'uomo attese qualche istante, poi mi imitò.

L'una di fronte all'altro, alle due estremità dell'albero, restammo a fissarci mentre il temporale si allontanava pian piano.

Quando il cielo tornò limpido e l'acqua cheta, lui rilasciò un sospiro esausto e si abbandonò con la schiena sul tronco.

Lo osservai riposare fino a mezzodì, rivivendo nella mia testa ogni singolo momento che avevamo condiviso nelle ultime ore.

Ogni sguardo. Ogni tocco. Ogni respiro.

Che mi era saltato in mente? Come avevo potuto anche solo permettergli di sfiorarmi? E come avevo potuto provare delle emozioni così viscerali e... carnali?

Era un umano, io un'elfa. Non mi era semplicemente proibito sentirmi attratta da lui. Era impossibile che lo fossi. A eccezione di Mornon l'Abominio, non vi era mai stata alcuna contaminazione nella nostra specie, giacché gli Spiriti destinavano a ogni elfo un suo simile con cui condividere la propria esistenza.

O, almeno, quasi a ogni elfo.

Quindi perché ero ancora qui? Cosa c'era in quest'uomo che mi impediva di andarmene?

Ma soprattutto, per quale insensato motivo sentivo che il mio posto era accanto a lui?

«Sai, se avessi smesso di fissarmi anche solo per un fottuto minuto, magari sarei riuscito a fare un maledetto sonnellino», si lamentò d'improvviso il soldato. «Il tuo sguardo è come una raffica di lame sul mio corpo».

Lo deviai subito, imbarazzata che lo avesse percepito su di sé per tutto questo tempo. Tuttavia, mio malgrado, l'attimo dopo lo riportai su di lui, quasi fossi incapace di non guardarlo.

«Qual è il tuo nome?», gli chiesi.

L'uomo si tirò su e osservò prima l'indice che stavo facendo scorrere sul pugnale che ancora avevo in mano, poi i miei capelli quasi asciutti e increspati dal sale. Le sue labbra, un po' secche, si incurvarono all'insù, quasi fosse compiaciuto che avessi perso la mia compostezza elfica.

Trasse un respiro profondo e, sollevando appena il mento con fierezza, rispose: «Amlach».

Un nome che era diventato piuttosto comune tra gli umani, negli ultimi tre secoli, poiché chiamavano i loro figli così per onorare l'attuale re, Amlach III, e i suoi predecessori.

«Io sono Nauriel», dissi.

Amlach inarcò un sopracciglio sarcastico. «Sì, ti ho sentita forte e chiaro, durante il tuo discorsetto da futura regina».

Lo trafissi con un'occhiataccia, e lui sogghignò. Guardai l'orizzonte alla mia destra, nella speranza che la tempesta ci avesse fatto riavvicinare al continente, ma non distinsi nemmeno un filo di terra.

Una cosa però era certa, constatai con sollievo. Eravamo nei confini delle Terre dell'Est, giacché avvertivo ancora le abilità sovrumane del mio popolo e la nostra magia scorrermi dentro.

«Ascolta, Amlach», incominciai, irritata dal sapore inebriante del suo nome sulla mia lingua. «Ti aiuterò a tornare dalla tua gente. Ma non possiamo restare qui ad aspettare che mio fratello ci trovi. Hai bisogno di acqua e cibo».

Lui mi scrutò con curiosità. «Tu no?»

«Io posso sopravvivere molto più a lungo di te senza entrambi», ribattei con un po' troppa durezza.

Amlach contrasse la mascella e mi rivolse uno sguardo tagliente. «Allora cosa suggerisci, elfa?»

Gli restituii la stessa occhiata. «C'è un arcipelago, a nord. Quando calerà la sera, remeremo in quella direzione con l'aiuto delle stelle».

«O potremmo usarle per andare verso est», fece lui, come se fosse la cosa più logica. «Dov'è la nostra terra».

«Siamo molto lontani dal continente. Abbiamo più probabilità di incontrare le isole in minor tempo».

«E se invece fossimo finiti molto a sud?», rimbeccò Amlach in tono caustico.

«Non lo siamo», chiusi il discorso, lapidaria, rinfoderando il pugnale. Ignorai il suo verso sprezzante e lanciai un'occhiata alle radici dell'albero alle mie spalle, ma nessuna di quelle che spuntavano dal mare mi pareva adatta. Dunque, tornai a rivolgermi all'uomo. «Bevi quel che resta delle nostre acque, poi prendi il tuo pugnale e seguimi».

Non gli diedi l'occasione di farmi delle domande e mi tuffai. Rimanendo sott'acqua, ispezionai le radici e poi i rami che la violenza delle correnti non aveva spezzato. Quando udii il tonfo di Amlach nel mare, mi avvicinai a lui e riemersi.

«Ho trovato solo una radice abbastanza dritta da usare come remo», dissi.

«Forse c'è un ramo dall'altro lato che fa al caso nostro».

Annuii. «Mostramelo».

Prendemmo fiato all'unisono per passare sotto il tronco e rispuntare dall'altra parte.

Amlach mi indicò un robusto ramo piuttosto in alto sul livello dell'acqua. Si sarebbe dovuto arrampicare per segarlo.

«Che te ne pare?»

«Sì, può andare». Lo scrutai di traverso. «Pensi di farcela?»

Lui mi scoccò un'occhiata sottile. «L'elfa ritiene che l'umano non sia abbastanza forte neanche per tagliare un ramo?»

Lo guardai male. «È solo che non è in una posizione facile. E tu sei enorme».

Un pigro sorriso malizioso si aprì sulle sue labbra. «Ah, sì?»

Mi resi conto con un secondo di ritardo dell'osceno doppio senso contenuto nelle mie parole. Avvampai fino alla punta delle orecchie e feci per nuotare via.

«Ehi». Sott'acqua, Amlach mi cinse la vita con un braccio per fermarmi, attirandomi leggermente a sé. Mi fissò, l'espressione a un tratto seria. «Grazie».

Per un istante mi smarrii nelle foreste di pini che le sue iridi sembravano racchiudere. Poi il mio sguardo si indurì. «Devi smetterla di toccarmi così».

I suoi occhi parvero divenire roventi come tizzoni. «Finora non mi è sembrato che ti dispiacesse».

Non appena sentii le sue dita affondare con più veemenza nel mio fianco, mi tolsi il suo braccio di torno e mi immersi, tornando dall'altro lato dell'albero. Mi appoggiai con una mano alla corteccia viscida, prendendo avide boccate d'aria, il cuore in procinto di sfondarmi il petto.

Aspettai qualche attimo affinché il battito tornasse regolare, poi sfoderai il pugnale e andai sotto per dedicarmi alla radice.

Quando finimmo di affinare i due remi con le nostre lame, la sera era quasi giunta.

Ammirai il sole tramontare sulle placide onde grigie, screziandole di arancio e oro, poi osservai il cielo sfumare man mano verso i toni dell'indaco. Sollevai il naso, in cerca delle prime, pallide stelle. Quando la costellazione che ci avrebbe guidati sorse, incontrai lo sguardo di Amlach e gli feci un cenno.

Lui contraccambiò e cambiò posizione, sedendosi a cavalcioni sul tronco con le spalle rivolte verso di me. Si girò per assicurarsi che anch'io avessi calato il mio remo in acqua, quindi incominciammo a vogare.

Insieme.


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