CAPITOLO 17

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Rinvenni a poco a poco. Ero svenuta per la seconda volta nel giro di qualche giorno. Un banale pugno di un banale umano non avrebbe dovuto mettermi fuori gioco.

Invece era accaduto, e la cosa non mi piaceva per niente.

Mi sembrò di compiere uno sforzo titanico per schiudere le palpebre. Impiegai parecchi secondi per mettere a fuoco l'ambiente in cui mi trovavo.

Ero seduta a terra, con le gambe raccolte di lato e le braccia ammanettate dietro la schiena, intorno a un palo di legno al centro di un'angusta cella.

Due misere lanterne, appese ai lati di una porticina, rischiaravano a malapena altre tre celle affollate. In due di esse, i prigionieri erano rannicchiati in posizione fetale sul pavimento, così freddo sotto i miei piedi. Nella terza vi erano un uomo e una donna che, appoggiati con la schiena alle sbarre di ferro, stringevano fortissimo tre bambini di diverse età tra le braccia, nel tentativo di scaldarli.

Nessuno di questi umani aveva una coperta per proteggersi dall'umidità emanata dalle pareti di legno.

Il fetore nauseabondo di corpi sporchi ed escrementi, proveniente dai secchi nelle rispettive celle, mi serrò la gola come un cappio. Mandai giù un conato e mi concentrai per annusare altri odori che non mi rivoltassero lo stomaco.

Solo che non ci riuscii. Il mio olfatto era... limitato.

Serrai gli occhi con rabbia, il respiro che iniziava ad accelerare. Cercai di usare il mio udito per cogliere le voci dei pirati sparsi sul galeone e trovare quella del capitano, ma non fui in grado di udire nient'altro che i respiri rantolosi dei prigionieri e i loro occasionali lamenti e colpi di tosse.

«La prossima volta fai parlare me».

Mi voltai di scatto a sinistra. Amlach era seduto contro la parete esterna della nave, un ginocchio piegato al petto e l'altra gamba stesa, mentre giocherellava con una grossa scheggia di legno che doveva aver staccato da una trave. L'oscurità lo ammantava, rendendomi difficile vederlo bene in volto, ciononostante le sue iridi parevano braci ardenti.

«Se non ti fossi mostrata così altezzosa», continuò a redarguirmi, «avremmo potuto contrattare decisamente meglio il nostro rilascio».

Lo folgorai con lo sguardo. «Sei così convinto che avresti fatto di meglio?»

Lui stirò un angolo delle labbra. «Voi elfi avete la tendenza a sentirvi superiori a noi umani».

«Lo siamo», replicai di getto, leggermente offesa.

Amlach emise un risolino gutturale e fece scorrere gli occhi lungo la mia figura, soffermandosi infine sui polsi legati. «Non in tutto, a quanto pare».

Guardai altrove, infastidita dal calore che avvertii sulle guance e dal modo in cui i muscoli del mio bassoventre si erano contratti. Decisi di cambiare argomento. «Perché tu non sei incatenato?»

Sogghignò. «Suppongo non mi ritengano pericoloso quanto te».

Mi ingiunsi di rimanere impassibile, ma la rabbia che mi stava montando dentro a ondate sempre più intense me lo impedì.

«Da quanto abbiamo ripreso la navigazione?», chiesi.

«Da un po'», fu la criptica risposta.

«Quanto, Amlach?», scattai.

Mi sentii il suo sguardo indagatore addosso. «Che succede?», chiese, intuendo che qualcosa non andava.

Lo sbirciai di sbieco. Dopo tutto il tempo speso insieme, la fatica e il cibo condivisi, i momenti passati a punzecchiarci, studiarci e, talvolta, a chiacchierare, e le notti trascorse a pochi passi di distanza l'una dall'altro, potevo davvero fidarmi di lui?

E se quella che mi aveva mostrato finora fosse stata soltanto una maschera? Se, mentre ero incosciente, avesse cospirato con il capitano per condannarmi a chissà quale atroce destino?

D'altronde, Amlach era un umano, come questi pirati. E nonostante i miei sforzi per salvarlo, era palese che continuasse a disprezzare la mia razza.

«Nauriel». Notando l'insicurezza mista all'ansia crescente sul mio viso, Amlach mi venne vicino e mi posò una mano sul ginocchio. Il suo sguardo era tanto veemente che lo percepii insinuarsi nella mia mente. «Dimmelo».

Lo fissai, preda di un brutale conflitto interiore. Una parte di me voleva fidarsi di lui. Eppure, nel profondo del mio essere, qualcosa mi avvertiva di non abbassare la guardia.

«Devi aiutarmi», dissi, alzandomi così di slancio che un tremendo capogiro mi fece quasi ricadere a sedere.

Amlach fu lesto a rizzarsi e sostenermi, una mano sul mio fianco e l'altra sul mio bicipite. Mi scrutò, interdetto da quella mia improvvisa debolezza. «A fare cosa?»

«A rompere le catene», e diedi un primo strattone deciso.

Nulla, nemmeno un cigolio del metallo.

«Non so se l'hai notato, elfa, ma non ho niente qui con me per scassinare le manette». Amlach mi osservò corrucciato mentre perseveravo a tirare con i denti digrignati per lo sforzo. «E, come non fai che sottolineare, non sono forte come te».

Smisi di strattonare e lasciai ciondolare il capo in avanti, il respiro affannato, i muscoli delle braccia che bruciavano come non avevano mai fatto. Era tutto inutile.

«Non lo sono più», mormorai.

«Che vuoi dire?», si allarmò Amlach.

Rialzai la testa e colpii piano il palo dietro di me, chiudendo le palpebre con un'impercettibile smorfia sconfitta. «Abbiamo oltrepassato il confine delle Terre dell'Est».

Amlach sollevò un braccio e si appoggiò al palo sopra il mio capo, chinandosi su di me. «E che significa?», domandò a bassa voce, quasi temesse che qualcuno ci stesse ascoltando.

Rivolsi il viso verso il suo e, specchiandomi nei suoi occhi, presi la mia decisione. Scelsi di confessargli la mia vulnerabilità.

«Che sono come un'umana, adesso», risposi.


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