CAPITOLO 25

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«Oh, mi piacerebbe vedervi provare», lo provocò Amlach, in tono tanto tenebroso che per un attimo i raggi solari che filtravano dalle fessure rettangolari in alto sui muri sembrarono attenuarsi e far piombare i bagni nel semibuio.

I miei occhi saettarono sui quattro soldati con le balestre e avvertii l'insorgere di lacrime d'ira al pensiero di non poter sfruttare la mia velocità sovrumana per metterli al tappeto prima che riuscissero a flettere il dito sul grilletto.

La quinta guardia fece un mezzo sorriso canzonatorio e, la mano sull'elsa della daga, fece un passo verso Amlach. «Vedi, amico», lo scimmiottò, «non abbiamo soltanto ricevuto l'ordine di infilzarvi le gambe nel caso tentaste di scappare. Se ci attaccate, abbiamo il via libera a farvi fuori».

«E rimetterci, così, la somma con cui il vostro padrone ci ha comprati?», intervenni, la voce intrisa di collera a stento trattenuta.

Lui mi irrise con una smorfia tutta denti. «Il Signore ripoterà i vostri cadaveri ai vostri re e mentirà loro, dicendo di aver assistito al vostro omicidio ad opera di quel serpente di Escrain. I vostri stupidi sovrani lo ringrazieranno per avervi ricondotto alle vostre famiglie, così da potervi seppellire nella vostra terra, e sarà lautamente ricompensato per la bontà del suo animo. Parole sue, eh», si affrettò a sottolineare, sollevando le mani in uno sbeffeggiante segno di innocenza. «Perciò...» Divertito, mi esortò a liberarmi dei miei abiti con un'alzata di sopracciglia.

Mi immobilizzai, ogni atomo del mio corpo come congelato. Io non... non volevo che questi umani mi vedessero nuda. Non volevo sentire i loro occhi percorrere la mia pelle con avara libidine. Non volevo udire i loro respiri farsi più pesanti man mano che la loro eccitazione cresceva. Non volevo ascoltare i versi allupati che sarebbero fuoriusciti dalle loro labbra.

Non potevo.

«Non può svestirsi in nostra presenza», dichiarò Amlach con veemenza, quasi avesse colto ogni mio singolo pensiero. «Gli elfi hanno usanze diverse dalle nostre e...»

«Non è un mio problema», lo interruppe il soldato, annoiato, e fece cenno ai suoi compagni di spostare la mira più in alto.

Sui nostri cuori.

Allora, sollevai il mento con austerità, pronta a morire piuttosto che perdere la mia dignità.

«Ehi». Amlach mi si parò dinanzi, sottraendomi alla vista delle guardie con la sua mole.

Mi rifiutai di guardarlo in volto, di fargli vedere quanto fossi debole e vulnerabile in questa mia forma... umana.

«Ehi», ripeté lui sottovoce, serrandomi le dita intorno ai bicipiti per richiamare il mio sguardo a sé. Nel suo albergava così tanta determinazione. «Andrà tutto bene. Non darla vinta a questi bastardi». Mi diede una strizzatina per enfatizzare le sue parole, accarezzandomi l'interno dei bicipiti con i pollici per infondermi ancor più sicurezza. «Ti aiuto io».

Di slancio mi lasciò andare per agguantare uno dei teli sulle sedie. Lo spiegò e, tenendo un angolo nella sinistra e un angolo nella destra, lo aprì in tutta la sua ampiezza. Inclinò il capo verso le docce, ognuna delle quali era separata da un muretto alto fino alla mia spalla, e mi fece l'occhiolino.

Comprendendo ciò che aveva in mente, lasciai che la sua forza mi entrasse dentro e mi rinvigorisse, dunque mi infilai in uno dei vani.

Amlach cambiò la presa sui due angoli del telo per poterlo tenere steso anche stando di spalle e lo utilizzò a mo' di tenda per chiudere la soglia della doccia.

Abbassai la testa e lasciai che i capelli mi ricadessero davanti al viso per nascondere un sorriso colmo di gratitudine. Poi mi spogliai e posai i pantaloni e la tunica in cima al muretto alla mia destra. Girai l'unica manopola collegata al tubo che sbucava da metà parete, procedendo verso l'alto e poi curvando in orizzontale sopra di me.

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