CAPITOLO 46

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Finalmente, dopo essersi svolti nelle dimore di tutti gli altri Signori e Signore, i consueti festeggiamenti serali dei Giochi tornarono ad aver luogo nella villa di Roxior.

Una strana atmosfera aleggiava nel salone dei ricevimenti, addobbato di ogni gradazione di rosso per onorare la luna di sangue che gli astronomi avevano annunciato giorni orsono.

Guardai fuori dalla grande finestra ad arco, vicino alla quale io e Amlach stavamo conversando con un Signore e sua moglie, ammirando il disco vermiglio che pareva bruciare tra le stelle che tempestavano il cielo scuro come l'inchiostro.

Mi sentivo inquieta.

Tutti indossavamo vesti che rimandavano alle varie sfumature del sangue, e il movimento ondeggiante dei tessuti mi dava l'impressione di trovarmi in un mare denso e troppo caldo e viscoso.

Vino così rosso da sembrare nero fluiva dalle fontane sui tavoli imbanditi, il suo effluvio penetrante che si mescolava al profumo dolciastro dei petali di rosa che schiavi e schiave seminudi e con i collari d'oro lanciavano in aria, mentre danzavano provocanti tra gli invitati.

La musica che i musicisti stavano suonando era troppo acuta e stridente e dal ritmo irregolare, le corde degli strumenti che parevano sul punto di saltare da un momento all'altro e tranciare le loro dita.

Vino gocciolava dalle barbe degli uomini che lo tracannavano senza ritegno, incuranti di versarne la maggior parte sul pavimento. Le labbra purpuree delle donne erano spalancate in sorrisi così larghi da risultare innaturali, quasi mostruosi.

Osservai la gente calpestare petali e pozzette di vino fino a creare involontariamente macchie cremisi, che pian piano mi parvero allargarsi per generare un manto pronto a inghiottire i presenti.

«Nauriel?»

La voce di Amlach mi giunse come un'eco tanto lontana che non vi prestai attenzione. Invece, il mio sguardo incrociò quello di Roxior, vicino ai musici insieme alla sua prosperosa moglie dai capelli scuri come il cacao e la pelle color miele.

L'uomo, con una corona di rose sul capo che faceva sembrare le sue iridi quasi di cristallo, levò il calice dorato nella mia direzione. C'era qualcosa di criptico nell'accenno di sorriso che mi rivolse.

Una nota vittoriosa.

La vittoria di chi sapeva di stare fissando il suo tesoro più grande. Un tesoro che non si sarebbe mai esaurito.

Per la prima volta da quando eravamo arrivati, vidi la menzogna dietro i suoi avari occhi di ghiaccio, e mi diedi dell'emerita sciocca per aver creduto che quest'uomo fosse diverso dagli altri, che possedesse un qualche onore.

Era un umano, e come tutti loro bramava il potere. Ed era convinto che io sarei stata il suo indistruttibile strumento fino al suo ultimo respiro.

«Nauriel». Amlach mi diede una strizzatina al gomito per calamitare il mio sguardo a sé, per poi sorridere con garbo alla coppia.

Feci altrettanto, fingendomi mortificata. «Perdonatemi. Il vostro vino è più deciso di quello prodotto da noi elfi e deve già avermi dato alla testa», dissi, provando a fare dell'umorismo, e mandai giù un sorsetto dal bicchiere che avevo tra le mani.

La donna ridacchiò. «Vi capisco, cara», e bevve anche lei.

«Forse è meglio se ti siedi per un po'», propose Amlach, sospingendomi verso il largo e basso davanzale della finestra.

I coniugi lo interpretarono come un invito a congedarsi.

Rimasti soli, Amlach svuotò sia il mio calice sia il proprio e li posò sul vassoio di un servitore di passaggio.

Sulla soglia di un'alcova dall'altra parte della sala, la Signora Yrrek mi stava pugnalando con un'occhiata assassina mentre il suo gladiatore dai denti aguzzi, dietro di lei, le massaggiava i seni pesanti attraverso l'abito indecente, baciandole il collo.

Amlach mi si piazzò davanti per togliermi dalla sua traiettoria e mi alzò il mento con due dita. «Ancora qualche minuto, poi ce ne andiamo», decretò, passandomi il pollice vicinissimo al labbro con un cipiglio che lasciava trapelare quanto detestasse il pigmento color rubino. «Tieniti pronta a far credere a tutti di non poter più resistere neanche un attimo senza avermi».

Mi tolsi la sua mano dal volto e la tenni con fermezza mentre mi tiravo su, fissandolo ansiosa. «Qualcosa non va».

Lui si mise a giocherellare con uno dei boccoli che le serve non avevano inserito nella mia acconciatura. «Che vuoi dire?»

Azzerai la distanza tra di noi come se volessi un abbraccio, invece sfruttai la sua mole per dardeggiare con lo sguardo vigile in ogni angolo del salone senza che nessuno notasse il mio comportamento. «È solo... una sensazione».

Una sensazione che sapeva di foreste sconfinate ed erba fresca, di aria pura e cascate d'acqua cristallina. Di passi leggeri e grazia e abilità ineguagliabili. Di risate melodiche e voci gentili.

Una sensazione di... familiarità.

Fu allora che scorsi delle figure, avvolte in drappi scuri dalla testa ai piedi, aggirarsi furtive tra gli invitati preda dell'euforia del vino e dei piaceri carnali.

E, sotto il drappo di una di loro, qualcosa luccicò per un istante.

Qualcosa di bianco.

Il cuore mi balzò in gola, e i miei occhi sgranati cercarono subito quelli circospetti di Amlach. «Non siamo soli».

Il battito di ciglia seguente gli intrusi si tolsero i drappi con tanta enfasi da smuovere l'aria e far oscillare le fiamme delle torce ai muri e delle candele sui tavoli. In perfetta sincronia, impugnarono gli archi a tracolla e incoccarono le frecce dall'impennaggio candido nelle faretre dietro la schiena, le bianche armature leggere che spiccavano tra le stoffe rosse.

La musica cessò con un brusco stridio e gli ospiti proruppero in assordanti grida di terrore, ammassandosi tra di loro per rifugiarsi dalle cuspidi puntate sulle loro teste.

Stritolai la mano di Amlach, che mi trasse contro il proprio corpo rigido.

Roxior si sbracciò per tentare di uscire dalla calca urlante. «Guardie!», abbaiò, paonazzo e con gli occhi spiritati che saettavano da un arciere all'altro. «Guardie!»

«Le tue guardie», rimbombò una voce che mi fece girare di colpo verso il soldato, in armatura nera dalle decorazioni in rame, appena apparso all'entrata della sala, «sono morte, feccia umana».

Un silenzio traboccante di paura cadde tra gli invitati.

Il mio cuore mancò un battito. «Araton», sussurrai.

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