43. Katharina

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Mi ero precipitata a casa di Nikolaus, ma la fortuna non era stata dalla mia parte.

Nikolaus non era in casa e io ero rimasta a fissare il citofono muto per interi secondi prima di riprovarci e, quando anche il secondo tentativo non aveva ricevuto risposta, tornare indietro.

Avevo quindi dovuto prendere atto dell'evidenza, avrei comunque visto Nikolaus l'indomani al lavoro e, per quanto l'idea di sistemare questa questione in particolare in un luogo non privato non mi entusiasmasse, lo avrei fatto lo stesso.

Ero abituata a prendere le cose di petto e questa non avrebbe fatto eccezione.

Arrivai in ufficio con l'idea fissa di parlare con Nikolaus, ma senza sapere cosa gli avrei detto di preciso, ogni volta che avevo fatto questo tipo di piani lui me li aveva scombussolati subito, quindi stavolta non ci avrei neanche provato.

Quando mi affacciai sulla porta dell'ufficio che ormai condividevamo in pianta quasi stabile, convinta di trovarlo già lì come accadeva la maggior parte delle volte, rimasi impalata sulla soglia: di Nikolaus non c'era traccia. Il computer giaceva chiuso sul piano di legno e sulla sedia girevole non era appoggiata nessuna delle giacche che era solito levarsi per mettersi più comodo quando non aveva nessun meeting.

Che mi stesse evitando?

Cominciando a lavorare seduta alla mia vecchia scrivania, non me la sentivo infatti di rimanere sola nell'ampio ufficio solitario, mi autoconvinsi di no, magari era semplicemente in ritardo e di lì a poco le porte dell'ascensore si sarebbero aperte per lasciarlo passare.

Quella mia previsione si rivelò alquanto fallace perché, un'ora dopo, di Nikolaus non si era vista neanche l'ombra e io cominciavo a credere davvero che non volesse vedermi. Sarebbe stato comprensibile, magari voleva solo schiarirsi anche lui le idee, nonostante le avesse molto più chiare di me, e per farlo aveva scelto la via ella solitudine.

Peccato che avesse un'azienda da mandare avanti e delle riunioni a cui partecipare.

Quella sua defezione improvvisa mi costrinse, non appena divenne chiaro che non sarebbe venuto, a rimandare tutto con poco preavviso, perfino un primo incontro con un cliente abbordato alla convention in cui Jakob aveva fatto da relatore. Con l'addetto dall'altra parte del telefono dovetti inventarmi un attacco di emicrania cronica che aveva costretto Nikolaus a letto e al buio.

A quel punto, però, alla sequela di emozioni che già mi portavo dentro si era aggiunta l'irritazione: doveva avvertire. Capivo il trattamento del silenzio, che rivelava una presa di posizione molto eloquente, ma oltre al rapporto tra noi due che dovevamo definire, c'era anche quello sul lavoro e non poteva essere messo da parte per i nostri capricci.

In parte ero preoccupata anche per quello, e continuai a rimuginarci sopra durante tutto il giorno, rischiavamo di portare i nostri fatti personali sul lavoro, lo stavamo già facendo in realtà, e ciò non doveva accadere.

Avremmo dovuto mettere delle regole, nel caso.

Ma se Nikolaus non si fosse deciso a mostrarsi con il proposito di discuterne, non saremmo andati da nessuna parte.

Uscendo dall'edificio della Mayer Advertising Society dopo una giornata passata a oscillare da un'emozione all'altra, decisi che se non fosse venuto in ufficio, avrei spinto sull'acceleratore un'altra volta andando di nuovo a casa sua, e, se non l'avessi trovato, avrei chiesto a Jakob se sapesse qualcosa.

Mi fermai dopo qualche passo, appoggiato alla familiare utilitaria blu e riparato da un ombrello dalla debole pioggia che aveva preso a scendere qualche minuto prima, c'era niente meno che Nikolaus. Teneva l'ombrello inclinato quasi a quarantacinque gradi e la mano non reggeva il manico era affondata nella tasca del pantalone nero.

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