23. Nikolaus

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Quando salimmo di nuovo in macchina, non riuscivo a smettere di sorridere. Le ore passate con la mia famiglia avevano sempre quell'effetto e l'aggiunta di Katharina al quadro non aveva guastato, anzi non mi sarebbe dispiaciuto che fosse un qualcosa di permanente. Mi faceva strano pensare che, dopo tutti quegli anni a stretto contatto con mio padre, non avesse ancora conosciuto i miei fratelli e che fossi dovuto arrivare io a far sì che ciò accadesse. Avevo ormai capito che Katharina tendeva a tenere le cose in compartimenti stagni e che, senza le giuste spinte e una buona dose di fiducia, non avrebbe consentito a nessuno di giungere a conoscere molto di più di quel che faceva vedere a tutti.

Katharina aveva un'espressione a metà tra il soddisfatto l'appagato che le donava un'aura di dolcezza che non lasciava intravedere con facilità ma che avrei voluto vedere più spesso.

«Ogni volta che vengo qui, smetto di rimpiangere la cucina italiana.» Dissi la prima cosa che mi venne in mente per rompere la monotonia della musica che avevamo acceso non appena avevo messo in moto la macchina. Katharina aveva la testa appoggiata al finestrino e sembrava sul punto di scivolare nelle braccia confortevoli del sonno, io però desideravo egoisticamente che parlasse ancora con me.

Sentendomi rompere il silenzio, Katharina si riscosse e sollevò la testa per voltarla subito dopo verso di me.

«Immagino che dopo tanti anni trascorsi a Roma, Berlino ti sembri estranea.»

Non poteva sbagliarsi di più, quel sentimento di estraneità che forse stava dando per scontato era quanto di più lontano ci potesse essere da ciò che provavo.

«No, non direi. È più come innamorarsi di due persone e non riuscire a scegliere. La verità però è che non sono obbligato a farlo.»

Forse quel paragone era azzardato, rischiavo di mettere Katharina a disagio, cosa che non volevo, e di scivolare su terreni pericolosi che, dopo una serata e una mangiata come quella appena trascorsi, era meglio lasciare da parte.

«Non sempre si è obbligati.» Replicò lei sorridendo come se avesse capito l'allusione velata in cui mi ero lanciato. C'era chi si rifiutava di credere che il poliamore esistesse perché, nella loro limitata visione delle cose, non si poteva davvero donare il proprio cuore a due persone, Katharina per fortuna, se non stavo interpretando male il nostro parlar velato, non la pensava così.

«Già.» Replicai senza sapere cosa aggiungere così lasciai che il silenzio tornasse a far da arbitro tra noi.

A differenza di quanto avevo pensato, quella quiete non era affatto scomoda, ma la percepivo addosso come una coperta calda e avvolgente che portò Katharina ad appoggiare nuovamente la testa al finestrino e, pochi minuti dopo, a cedere al sonno che la stava tentando da prima.

Lanciando di tanto in tanto delle veloci occhiate alla donna dormiente accanto a me, continuai a guidare nelle strade poco frequentate della città. L'intenzione era di svegliare Katharina solo una volta giunti a destinazione ma, non saprei dire quanto dopo, la Marcia imperiale di Star Wars fece sobbalzare sia me che Katharina. Bisognava esser masochisti per impostare proprio quella suoneria, ma riuscì nell'intento di far scattare sull'attenti la donna che ora guardava accigliata lo schermo del telefono.

Concentrato com'ero sulla strada davanti a me non riuscii a seguire l'avvicendarsi delle microespressioni sul volta di Katharina ma la sentii rispondere ancora con la voce un po' assonnata, rimanere in silenzio per quasi un minuto intero e poi dire ancora con voce più ferma:

«Devo venire? Posso essere lì in poco tempo.»

Non so se fu l'inclinazione nel tono di Katharina o qualche altra cosa, ma quelle parole mi riportarono alla mente l'ultima volta che aveva ricevuto una chiamata improvvisa: alla fine di essa, era scappata via a causa di un'emergenza.

Armonia di sogni e speranzeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora