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Lyon

«Nancy, dovresti smetterla di provocarmi» le dico, in fondo divertito, poggiando gli avambracci sul tavolo, per tendermi verso di lei. Sta giocando in modo del tutto ambiguo con una fragola. Ma, quello che mi preoccupa davvero, è che io non stia provando alcun barlume di eccitazione, quanto di tenerezza, davanti al suo sguardo furbo. Forse dovrei parlarne con la mia psicoterapista. Tanto per cambiare. Ho iniziato le sedute un anno fa, dopo l'infortunio, coinciso con l'inizio della mia depressione. Anzi, più precisamente, ne è stato il movente. 

La psicoterapia è stato l'unico motivo che, per un anno, mi ha spinto a uscire, non perché ne provassi il sollievo, ma era l'unico momento, lì, seduto su un divanetto in pelle nera, circondato da quadri futuristi, e piante esotiche, in cui smettevo di vivere nel ricordo di chi ero stato. Per mesi non ho parlato. Mi bastava distendere le gambe, togliermi le scarpe – senza che la signorina Perry me lo permettesse o me lo impedisse, ma doveva aver intuito in che stato fossi senza che mi raccontassi – e improvvisamente entravo in una trance, come se quello spintone che mi aveva disteso a terra non fosse accaduto. I fischi dalle platee, il profumo della gomma e lo scricchiolio delle scarpe, il rumore – la sinfonia per me - della palla quando faceva canestro, le luci puntate su di me, su di noi. Ero ancora Lyon.

«Lyon!» Nancy mi sta osservando perplessa. Sgrano gli occhi, non mi sono reso conto che siamo rimasti soli al ristorante. Mi guardo intorno, le sedie sono state adagiate sui tavoli, già sparecchiati, la sala è permeata da una luce soffusa, che ci sta discretamente invitando a lasciare il locale. Cerco con lo sguardo un cameriere per pagare il conto. Lei ha già indossato il suo impermeabile.

«Non vorrai mica proseguire quello che abbiamo lasciato in sospeso qui...» le parole sussurrate mi solleticano le labbra su cui le ha pronunciate. Sorrido, stando al gioco «vado un attimo in bagno, capo» aggiunge con fare sensuale, sfiorandomi il mento con l'unghia. È molto erotica, è molto sexy. È anche intelligente. Che cos'hai che non va, Lyon? Credevo che, dopo aver accettato la proposta di lavoro da parte dei miei genitori – l'ho fatto per loro, non sopportavo più di vederli consunti, disperati e preoccupati per me – e che gli affari andassero bene, fossi di nuovo in carreggiata, avessi almeno uno scopo per alzarmi al mattino. 

Ma, a quanto pare, qualcosa di irrisolto in me è rimasto. Prima non mi ponevo tante domande sulle ragazze con cui andare a letto, ogni sera mi ritrovavo a casa con una ragazza diversa. Non me ne faccio un vanto ma... insomma, erano loro ad essere irresistibili e a volermi. Sono pur sempre un gentiluomo e non ho mai rifiutato le avances di nessuna. Ma sono stati sei anni tanto intensi quanto brevi. Giusti per farmi assaporare e sognare chi sarei potuto diventare, crudeli per avermi fatto illudere. Ero diventato dipendente da quell'adrenalina che mi scorreva nelle vene quando entravo in campo o mi allenavo con gli altri. Dall'infortunio, dalla diagnosi, non sono più riuscito a toccare un pallone da basket, così come a varcare le porte di un palazzetto e persino a vedere le partite da casa.

«Ho una sorpresa per te» Nancy mi sorprende alle spalle. Con una mano dietro la schiena, dopo aver salutato il maitre e il proprietario del ristorante che mi ha riconosciuto – più come Lyon che come CEO della O'Brien Company di Manhattan - la accompagno all'uscita. L'autista ha già fatto portare la mia auto, apro lo sportello e la invito a salire. Dopo aver lasciato la mancia, mi accingo a impostare il navigatore con l'indirizzo di casa sua.

«Harlem, giusto?»

«Oh, ma io non ho alcuna intenzione di tornare a casa adesso, Lyon» con la coda dell'occhio, osservo che si sta sciogliendo il nodo della cintura in vita. È nuda. Deve essersi spogliata in bagno.

«Nancy...» obietto mentre la sua mano si infila nei miei pantaloni.

«Lasciami essere la tua segretaria anche stanotte.»

LOVE ON THE GAME - Non senza di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora