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Lyon

Me ne sto inerme a vederla andar via, dopo che si è sottratta alla presa di Mark e mi ha rivolto un ultimo sguardo, confuso.

«Lyon, grazie di essere venuto» Mark è visibilmente emozionato ed elettrizzato al tempo stesso.

«Congratulazioni, collega» dico ricambiando la stretta di mano e aggiungendo una pacca sulla spalla. Sfilo dal taschino interno alla giacca la busta con i biglietti e gliela porgo. Non mi sembra il caso di chiedergli quale sia la situazione tra lui e Jenna oggi che è il giorno della sua laurea e se mai prima ci fosse stata qualche incertezza, ora so che tra loro c'è più di una semplice amicizia. Mi sento una merda per aver baciato la sua ragazza.

«Spero sia un regalo gradito»

«Cos'è?» chiede sorpreso mentre la apre «e comunque non dovevi disturbarti, mi paghi già abb...» si interrompe improvvisamente appena riconosce la sagoma della coppa d'oro sul primo biglietto. I suoi occhi percorrono più e più volte una rotta obliqua che si muove dalla busta in direzione del mio sguardo e viceversa.

«Non c'è di che» aggiungo.

«Non so come ringraziarti, cazzo» dice abbracciandomi e visibilmente emozionato.

«Non ho mai visto una partita al Madison Square Garden» continua stringendo i biglietti come fossero la cosa più preziosa al momento.

«In realtà questi sono per la prima partita delle Finals, per gli altri basterà chiedere in biglietteria. Ho già lasciato il tuo nominativo, potrai portare fino a un massimo di quattro persone con te ogni volta e potrai vedere tutte le partite delle Finals che preferisci fino alla fine di questa stagione» Mark per tutta risposta rimane a bocca aperta, con occhi sgranati. Lo abbraccio e mi congratulo ancora finché il suo sguardo non si fa improvvisamente malinconico dopo avermi abbracciato di nuovo. 

Ha la testa lievemente inclinata alla nostra destra e mi appresto a osservare anch'io nella stessa direzione. A catturare la mia attenzione è un ragazzo con la camicia bianca e la giacca blu in mano che si fa strada tra la folla, da solo, a testa china. Un'immagine che stona visibilmente con l'aurea di festa che permea il parco. Ritorno a guardare Mark che ora stringe nelle mani i biglietti, senza il minimo accenno di entusiasmo avuto fino a poco prima.

«Grazie» dice sforzandosi di accennare un sorriso.

«Ci vediamo stasera» aggiungo, senza fare ulteriori domande.

«Sì, ma non vieni a pranzo con noi?»

«Ho degli impegni che non sono riuscito a sbrigare in tempo» dico, mentendo ma non fino in fondo.

«D'accordo, non mi permetterei di dissuaderti dal tuo lavoro. Sei pur sempre tu a pagarmi» mi schermisce.

«Hai ragione e da oggi sarò anche più esigente, mi aspetto ancora di più da te» il sorriso sarcastico di Mark si dissolve in una smorfia contratta.

«Mark, tesoro, non ci presenti?» la signora bionda che deduco essere sua madre lo prende sottobraccio e, prima che uno dei due risponda, fa capolino dalla sua schiena il bambino che è la fotocopia minore di Mark.

«Mamma, ti presento il CEO della O'Brien Company, Lyon O'Brien»

«Lucy Soon, molto piacere» dice allungando la mano che provvedo a stringere. Il taglio degli occhi e la dolcezza dello sguardo sono gli stessi di Mark «colgo l'occasione per ringraziarla di aver dato la possibilità a mio figlio di lavorare per la sua compagnia» non mi accadeva da molto, ma la tenerezza e la fierezza con cui ha pronunciato quelle parole mi hanno fatto arrossire.

«Da sempre l'azienda ha cercato i migliori e non ci saremmo mai fatti scappare un ragazzo arguto e volenteroso come Mark» ammetto.

«Tu sei il giocatore di basket, non è vero?» sposto lo sguardo sul piccolo che si aggrappa al braccio della madre. Indossa uno smoking blu e mi fa ricordare gli eventi in cui da bambini io e Nick partecipavamo agghindati allo stesso modo. Mi inginocchio al pari di lui.

«Lo ero» ammetto con un sorriso.

«Lo è» sento Mark aggiungere.

«Lo è?» commenta Lucy senza capire. Ha un'aria disincantata che a tratti mi ricorda mia madre.

«Non lo sono» ribadisco.

«Però tu, mio fratello e Jenna giocate insieme qualche volta» dice. Rivolgo uno sguardo confuso a Mark.

«Intende come passatempo, per scaricare la tensione dal lavoro» provvede ad aggiungere risolutivo Mark.

«Come ti chiami?» gli chiedo mentre mi alzo in piedi.

«Kyle»

«Kyle, a te piace il basket?» il bambino sorride compiaciuto.

«Bene, allora giocherai anche tu con noi qualche volta, d'accordo?» Kyle annuisce soddisfatto ed entusiasta.

«Ci conto. Ora, vi porgo le mie scuse, ma devo proprio andare» dico sfilandomi la giacca che aggancio al dito e la getto dietro la schiena. Presentazioni e interrogatori non sono il mio genere e hanno accelerato la mia sudorazione messa a dura prova dall'inaspettato calore del sole.

«Posso vedere i tuoi trofei?» quella domanda inaspettata, che sento giungere alle spalle, avrebbe riaperto una ferita qualche tempo fa, ma ora è come se qualcosa si stia rimarginando. D'accordo, non posso dire che parlare della mia carriera mi renda ancora indifferente, ma ci sto lavorando e di certo essere tornato a giocare – seppur in modo discutibile – mi sta aiutando ad uscire dal guscio protettivo che mi sono creato.

«Quando vuoi Kyle» dico con una naturalezza che lascia perplesso anche me.

Jenna

Mi accorgo solo ora che, dopo otto mesi di permanenza a New York, non ho mai accarezzato l'idea di sedermi e rilassarmi sul prato di Central Park, come sto cercando di fare ora, né ho mai preso in considerazione di contemplare l'Hudson o di navigarlo su un battello come fanno migliaia di turisti ogni giorno. D'altronde mi sono dovuta trovare subito un lavoro e ho ricoperto l'altra parte del tempo libero dedicandomi al mio sport. 

Eppure, tutto quello che è successo inizia ad aver un peso e Lyon... be' credo che lui abbia aggiunto il carico maggiore, tale da infrangere quell'aura di invisibilità che ho cercato di riservare al macigno di segreti e questioni irrisolte che ho seminato dietro di me. Porto le ginocchia al petto, distendo le mani a palmi aperti sul prato. Inclino la testa e mi abbandono ai raggi del sole, lasciandomi accarezzare dal loro calore. 

È così piacevole lasciarsi andare che mi spingo un po' oltre e mi libero delle scarpe. I miei piedi stavano implorando una tregua, ma non basta per fuggire dai miei pensieri, pensieri che mi avevano portata quasi allo svenimento se non fosse stato per Lyon. Mi sfioro le labbra con le dita, chiudo gli occhi. Ripenso a quel momento e un brivido scorre lungo la mia schiena. Un calore...strano mi possiede, ho bisogno di alzarmi, non riesco a stare seduta, inerme a rilassarmi sul prato. Afferro le scarpe, con un gesto spazientito, forse più per dover rispondere a emozioni che ho dimenticato, che per l'idea di indossarle di nuovo. 

Ma sono troppo nervosa per camminare con i tacchi, per cui propendo per avviarmi scalza sul prato, senza attirare l'attenzione di nessuno. In fondo siamo a New York, la città dove il surrealismo contagia perennemente il contemporaneo, dove la norma è anticonformismo e l'eclettismo è il passaporto per restare. Restare. Prima che arrivassi, non ho mai pensato al mio futuro, ho solo cercato di sopravvivere e sopravvivermi, di resistere e prendere le distanze da quel giorno. Non ho fatto i conti con la realtà. Ho solo pensato a dimenticare, a ricominciare, a spogliarmi della mia identità e ora inizio a pagarne le conseguenze. 

Al mio fianco, scorgo una folla di laureati dell'NYU, con le toghe e i tocchi, seguiti dai propri familiari. Mi ricordo di Mark, si starà chiedendo dove cavolo sia finita. Ma l'idea di tornare a fingere mi fa sentire peggio. Non ho fatto altro che fargli del male assecondandolo, solo perché io, come lui, reputavo giusto nascondermi. Ora... non so più chi sono. Non so più cosa voglio e nemmeno se voglio continuare a proteggermi, se voglio continuare a stare qui, se voglio continuare a fingere. E Lyon... be' Lyon... cos'è successo? Quando ho sentito le sue labbra decise, vigorose e dolci al tempo stesso sulle mie non ho resistito e mi sono arresa a lui. E per questo mi sono sentita in colpa... per essermi lasciata andare.

LOVE ON THE GAME - Non senza di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora