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Lyon

«Nancy, non puoi permetterti di fare queste scenate»

«Ah no? Non posso sbatterti in faccia la mancanza di rispetto che hai nei miei confronti?»

Discutiamo da ore, siamo rimasti solo noi nel cocktail bar dell'edificio O'Brien ed io sono esausto, non ho le forze e la lucidità giusta per farle capire, una volta per tutte, che non c'è niente per cui litigare. Assolutamente niente. La sua voce, mentre continua a fare la sostenuta, elencando le tesi per cui dovrei scusarmi – e che potrei confutare una ad una, ma non ho intenzione di farlo – è ormai ovattata, sarà per via della stanchezza che permea il mio corpo, a cui sto chiedendo troppo restando ancora in piedi dopo un'altra giornata di appuntamenti e chiusure di contratti da spuntare sull'agenda.

«D'accordo, finiamola qui per oggi. Ti faccio accompagnare a casa da Steve» decreto.

«Certo perché tu fai così, decidi di punto in bianco che non è il momento di parlare, per cui tutti devono assecondare il volere di Lyon O'Brien. Sei un bambino!»

«Basta, Nancy!» grido. Dall'espressione spaventata che si dipinge sul suo volto, mi accorgo che il tono di voce è leggermente sopra la norma, ma sono esasperato. Insomma, non è certo lei che ora può farmi la morale! Sorpresa dalla mia determinazione, retrocede, come a voler prendere le distanze da me, e il suo sguardo deluso mi fa sentire un mostro, ma ha esagerato. Intuisco che impieghi più tempo del dovuto a recuperare il cappotto, sotto cui far sparire l'abito nero che per tutta la sera ha messo in risalto la sua silhouette, per ritardare la fine di questa serata, serata che certamente si aspettava avrebbe preso una piega diversa. Ma, parlare con lei è impossibile. Forse non avrei dovuto invitarla al gala, è stata, ancora una volta, colpa mia. E non avrei neanche dovuto invitare Mark e Jenna, così non avrei dato modo, senso e diritto di esistere all'ultima discussione tra me e Nancy.

«Ci vediamo domani, buonanotte» conclude esitante davanti all'ascensore, senza girarsi. Ha deciso di non degnarmi neppure di uno sguardo, prima di sparire tra le pareti di cristallo.

«Signorino O'Brien» sono ancora in una dimensione evanescente, onirica e sospesa per riconoscere chi mi stia rievocando dal sonno. Solo quando si schiarisce la voce, capisco che deve trattarsi di Steve. Solo lui ha quel modo di fare educato e discreto, persino quando si schiarisce la voce, come se si stesse implicitamente scusando per quel gesto, gesto che mi avrebbe distolto da qualsiasi cosa io stessi facendo. Apro prima un occhio per abituarmi gradualmente alla flebile luce che, quasi con prepotenza, lo colpisce. Apro anche l'altro e mi rendo conto di trovarmi nel cocktail bar. Calo entrambe le gambe dal divanetto su cui devo essermi addormentato, con un movimento pigro. Mi guardo intorno. Sul tavolino avanti a me le birre che mi sono scolato da solo prima di prendere sonno. Steve si avvicina, giusto per farmi capire che sia ancora lì e lo degno di attenzione, facendo fatica a tenere entrambi gli occhi aperti. Non ricordo niente di ieri sera.

«La signorina Jenna è arrivata» mi informa. Jenna. È arrivata. Le ripeto nella mente prima di codificarle e attribuire una connessione alle due cose.

«Cazzo, che ore sono?» improvvisamente ricordo del nostro allenamento.

«Le sei e cinque»

«Merda» mi infilo le scarpe senza allacciarle, mi fiondo verso l'ascensore, digito il tasto per il piano terra sulla pulsantiera e inizio ad agitarmi, già immagino Jenna e il suo rimprovero mattutino, che, al solo pensiero, mi ricorda subito la discussione con Nancy. Non è il momento giusto per essere circondato dalle donne, ho un casino in testa e non solo. Mentre manifesto il mio nervosismo ora passandomi le mani tra i capelli, ora agitando le gambe, a turno, Steve è il ritratto dell'imperturbabilità. Attraversiamo la strada per salire su un altro ascensore, quello che ci porta all'attico in cui vivo da un anno.

LOVE ON THE GAME - Non senza di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora