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Lyon

Ho lasciato casa di Nancy alle quattro, di nuovo. Sono tre giorni che dopo lavoro finiamo a casa sua. Non l'ho svegliata, avevo solo voglia di andarmene. Siamo rimasti svegli fino alle tre, finché stanca e consumata dalle ore di piacere non è caduta nel sonno. Non vado a letto con una donna da un anno. A ventisei anni mi sembra di aver vissuto molte vite, dal draft, ai campionati NBA, alle meravigliose donne con cui ero abituato a uscire ogni sera – nonostante le controindicazioni del coach e dello staff. Purtroppo, il successo arriva con i suoi fari, le sue luci, ma anche con i suoi effetti collaterali e le donne sono uno di quelli. 

Ragazze che sembrano afroditi in terra ti vogliono e tu non sei nessuno per rifiutarle. Tu non puoi rifiutarle soprattutto se hai venti anni e sei una promettente stella del campionato. Soprattutto se entri in campo e segni, soprattutto se costringi il coach – e hai solo ventun anni - a metà stagione, a schierarti nella cinquina iniziale. Soprattutto se il tuo nome è quello che gridano dagli spalti. Tu ti nutri di tutto quello, io mi nutrivo di tutto quello, finché non mi è stato improvvisamente tolto. E da allora la mia vita è cambiata.

Ero concentrato sulla mia carriera, giocare a basket era quello che volevo fare, quello per cui mi sentivo nato. Mi facevo sempre trovare puntuale agli allenamenti, spesso anche prima dei miei compagni di squadra. Non potete capire cosa si provi quando, con un obiettivo da portare a termine e tu sei parte integrante di quell'obiettivo, diventi il mezzo perché quel grande obiettivo si compia. E allora inizi a vivere per quello. Non è più un gioco, è ossigeno. Non è lavoro, è corpo e cuore. Mi fermo al semaforo. Ma dove cavolo sono finito? Mi rendo conto di aver attraversato New York, da Harlem sono finito alla parte opposta della City, nella Lower East Side. Colpisco il manubrio con la mano. 

Da quando ho iniziato a lavorare non faccio che essere distratto. Ho bisogno di un caffè. Dall'ora che segna il cruscotto mi accorgo che sono le sei del mattino. Non appena scatta il semaforo, mi dedico alla perlustrazione, cercando un caffè in cui fare colazione. Dopo negozi di arredamento, un mall e un hotel si palesa Paul's Bakery. Parcheggio e scendo dall'auto, piacevolmente colpito da un venticello tiepido. 

Chiedo un caffè e una briosce e, mentre resto in attesa dell'ordine, perdo lo sguardo oltre la lunga vetrata che si staglia avanti a me, consegnandomi la visuale della novantacinquesima Houston. Il sole si sta levando, gli alberi che costeggiano il viale sembrano giovarne, riflessi luminosi si riverberano sulle loro fronde, e anch'io mi lascio sedurre dal principio della giornata. Decido, così, di fare due passi, mentre gusto la mia colazione, finché quel rumore, quel suono inconfondibile non mi cattura, prevalendo sul resto della città già in fermento. Come ipnotizzato, mi dirigo verso la fonte, verso il punto di attrazione e scovo un campetto da basket recintato. C'è un ragazzo, è solo. 

Ci sarebbero mille motivi per non entrare, tra cui la promessa fatta ai miei genitori che non avrei mai più toccato un pallone a spicchi, ma ci sono anche molteplici, infiniti, inspiegabili, irreprimibili e altrettanto plausibili motivi per fregarmene e seguire il mio istinto. Lo osservo dall'esterno. Si muove come fosse in sintonia con quella palla, come se non volesse essere disturbato. Palleggia in modo agile, tecnico, ha stile. E non sta sbagliando un tiro, ma... dovrebbe migliorare la posizione delle mani. 

Mi guardo in giro, come temessi che qualcuno potesse riconoscermi. Dall'infortunio e dall'esito degli esami, non ho più messo piede in un palazzetto, ma neanche in un campo da basket. Sono rimasto un anno nel letto a seguire il campionato, rifiutando di vedere e parlare con i miei ex compagni di squadra che, ora, sono anche ex amici. Più lo guardo, più in testa ho solo un pensiero: voglio entrare. Mi muovo con lentezza, quasi non volessi creare disturbo, quasi volessi restare a osservarlo senza risultare indiscreto. Non appena sono dentro si ferma. Ha una fascia sui capelli, legati in un codino, e il volto coperto altrettanto da uno strano cappuccio che gli nasconde il volto fino alla punta del naso. Pantaloni larghi, felpa che arriva alle ginocchia. La mia domanda è: come fa a muoversi così agilmente con tutta quella roba ingombrante?

LOVE ON THE GAME - Non senza di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora