Capitolo 35 - Non ti dimenticherò mai

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E il tempo passò. Forse sembrerò ripetitiva e noiosa, ma è così. I giorni, le settimane, i mesi, gli anni passarono. Momento dopo momento.

Zia Jenny a ottobre si era trasferita definitivamente, ma aveva lasciato a me e Tom la sua casa. Susan, naturalmente, stava con noi.

Niente avrebbe potuto essere migliore di vivere con Tom. Lui e io sempre insieme, anche perché non avremmo potuto fare altrimenti. Amarci era l'unica cosa che potevamo fare.

Io avevo trovato un lavoro complementare all'Università, nella redazione di una rivista su argomenti umanistici, come storia, letteratura, libri... Mi piaceva veramente e così potevo iniziare a ripagare Tom per avermi offerto i corsi di Università.

A dire il vero, i soldi non sarebbero mai riusciti a ripagare tutto quello che Tom aveva fatto per me. Darmi una nuova famiglia. Una nuova casa. Una nuova vita. Eravamo diversi, io e lui, ma ce ne fregavamo. Nulla importava se non il fatto che io lo amassi. E che lui amasse me, naturalmente.

Un nuovo anno passò rapido e dietro a quello un altro ancora. Il tempo volava in compagnia di Tom. Con lui al mio fianco, sentivo di poter fare qualunque cosa. Mi sentivo invincibile, come d'altronde era il nostro amore. E quello di Jack e Helen, pareva. Anche loro due avevano deciso, dopo un po' di tempo, di trasferirsi a Boston e Ally aveva trovato lavoro in un negozio di abbigliamento in centro, dove da commessa era diventata socia.

Così, tutto pareva perfetto. Tutto era perfetto. Due coppie felici insieme e una ragazza incredibile che vivevano in una graziosa villetta in una deliziosa città. Che cosa potevamo volere di più dalla vita? Nulla.

Ogni giorno si susseguiva al precedente con regolarità. Uno uguale all'altro. A parte il fatto che Tom sapeva sempre farmi delle sorprese. E poi, la vita di una persona comune, non era forse quella? Era forse arrivato finalmente tempo di pace e di calma, dopo tutte le burrasche che io e lui avevamo vissuto? Non sapevo e in verità non volevo sapere. Non volevo avere per caso brutte sorprese.

Un altro anno. Pomeriggi a correre per il parco, rincorrendo gli uccelli come bambini. Una settimana al mare a Miami. Lunghe chiacchierate al tramonto, seduti su una panchina a guardare i bambini giocare a pallone.
Tom che giocava a calcio con quei bambini del parco che ormai avevamo imparato a conoscere. Lui senza maglia con gli addominali contratti, un gigante rispetto ai bimbi che sbagliava ogni tanto appositamente. Che fingeva di perdere a braccio di ferro contro un bimbo down. Che si nascondeva dietro un tronco a nascondino. Che con le sue smorfie faceva ridere tutti, compresa me. Che insegnava ai bambini a fare judo o pugilato contro le sue grandi mani, le quali si chiudevano sui piccoli pugni dei bimbi.
In quei momenti capivo quanto fosse unico e speciale Tom. Quanto sapesse farsi amare da tutti (e soprattutto da me) in ogni suo piccolo gesto, con la sua delicatezza e la sua ironia. Tutti al parco ormai lo conoscevano, vecchi e bambini, adulti e giovani. Perché anche gli altri ragazzi, anche se all'inizio lo evitavano e lo disprezzavano essendo invidiosi, gli si avvicinavano e diventavano presto suoi amici.

Di tanto in tanto giocavo anche io con loro, facendo ridere tutti con le mie gaffes a calcio o con le mie cadute rovinose sull'erba scivolosa quando correvo. Purtroppo però non erano finzioni...

Mi divertiva molto anche solo guardare il mio ragazzo giocare e divertirsi con i piccoli. Il suo maggiore divertimento era vederli divertire. Sembra uno scioglilingua, ma era così.

Una volta, mentre giocava a calcio con i bambini nella tenue luce del crepuscolo, si era voltato verso di me, lievemente. E la luce spettacolare di quegli istanti si era riflessa nei suoi occhi rendendoli ancora più incantevoli. I muscoli guizzavano debolmente sotto la pelle morbida. Era perfetto. Non tutto però era così.

Un giorno, al parco ci arrivò la notizia. La notizia peggiore e più orrenda che avrei immaginato potessi sentire lì al parco.

Sembrava un pomeriggio come tanti altri. Ero in periodo esami, ma Tom mi aveva convinta a uscire ugualmente a forza di baci, carezze e 'Tipregotipregotiprego' cantilenati.

Quando arrivammo al nostro solito posto su una panchina sotto un albero fresco e frondoso, capimmo subito che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa di strano, misterioso e sospetto.

Chiedemmo preoccupati a una vecchietta vicina a noi che cosa fosse successo. Lei ci fissò per qualche istante, mentre le lacrime continuavano a scendere dagli occhi arrossati.

"È successa una cosa orribile..." gemette "Sapete chi è Carl?"

Annuimmo. Era un tenero bimbo di otto anni che aveva una qualche particolare sindrome.

"Lui era sotto medicine. La cura che gli stavano facendo era indispensabile per la sua sopravvivenza. Stanotte si è sentito male. Ha iniziato a delirare, urlando e piangendo. L'unica cosa che si riusciva a capire era che stava male. È stato portato di corsa all'ospedale. Ma là non è nemmeno arrivato. Gli hanno dato la medicina sbagliata, o forse un veleno mischiato alla medicina... Non si sa niente. L'infermiera per il dolore, come ha scritto in un biglietto, si è suicidata. Sul biglietto c'è scritto che non è lei la colpevole della morte di Carl. Che lei sapeva chi o che cosa è stato. Lei sapeva tutto e il peso di questa conoscenza l'ha oppressa al punto tale (così dice il biglietto) da voler morire con essa. E, a parere mio, con l'unica e ultima possibilità di scoprire la verità sulla morte di quel povero, caro bimbo che era Carl"

Iniziai ad ansimare. Ogni respiro usciva con difficoltà dalle mie labbra. Una lacrima, poi un'altra. Una dopo l'altra. Una successione ininterrotta. Tom, che stringeva le labbra cercando di trattenere le sottili lacrime che colavano sulle sue guance, mi mise un braccio attorno alle spalle e mi abbracciò, con la sua fronte contro la mia spalla e le mie dita infilate nei suoi capelli che li tiravano leggermente per la rabbia e la tensione.

Dio mio, Dio mio.

Cercai di respirare a fondo, ma mi uscì solo un singhiozzo strozzato, un verso orribile, che esprimeva alla perfezione quello che provavo. Un dolore lacerante. Un furore incontenibile verso l'infermiera che era morta portandosi il suo segreto nella tomba.

"La polizia ha messo da parte il caso. 'Non possiamo fare niente, non abbiamo scoperto niente di interessante sul bambino. E non abbiamo prove. Ufficialmente, l'assassina è l'infermiera. Di più non sappiamo e non abbiamo i mezzi per sapere. Ci dispiace'. Fine del caso. Carl di nuovo nel dimenticatoio" proseguì a fatica la vecchia.

No, non potevamo dimenticare Carl. La sua risata stridula. I suoi occhi color della pece. I suoi capelli più neri della notte. Le sue manine perennemente sudate. La sua corsa lenta, più lenta del camminare di un uomo. La sua fatica a parlare, a esprimersi. La sua dolcezza nel porgermi un fiorellino rosso appena colto (e poi seccato e conservato fra le pagine di un libro) il giorno del mio ventesimo compleanno. Per me, il suo caso non era chiuso. Il suo caso era nel mio cuore. Il suo caso si era ormai impossessato di una parte del mio cuore.

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SPAZIO AUTRICE :
nooooooo! Povero Carl! E che cosa carina il fiorellino rosso per il compleanno... Troppo dolce! Veramente troppo dolce, mi fa tanta tenerezza, a voi no? Ok, sto diventando ripetitiva, lo so, ma quando sono triste per qualcuno (in questo caso Carl) lo divento rapidamente. Scusatemi tanto, bellezze mie! E scusate se i capitoli non vi soddisfano o non vi piacciono. Sappiate che io mi sto impegnando al massimo e sono seria quando lo dico. Quindi, aiutatemi a migliorare questa storia, per piacere! Attendo con ansia commenti e voti! Nonché pubblicità!

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