Capitolo 42 - Sii forte

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Nonostante i miei numerosi pensieri, il viaggio da casa mia all'ospedale fu breve e rapido. All'entrata dell'ospedale c'era il medico che aveva telefonato a Tom. Era visibilmente preoccupato. Ma mai quanto me naturalmente.

Iniziò a discutere con gli altri medici, mentre delle infermiere corsero a portare Thomas nella Reparto d'Urgenza. Sala operatoria.

Urlò loro ordini e indicazioni, che nemmeno compresi. Mi sentivo come se avessi staccato la spina. Stato vegetativo. La tristezza mi sopraffaceva a ondate. Faticavo a respirare, mi sentivo annegare nell'ansia e nel dolore. Mi sforzai di capire che cosa stava succedendo da discorsi concitati del personale medico, ma alla fine rinunciai. L'unica cosa che riuscivo a comprendere, purtroppo, era la gravità della situazione. Il pericolo. La difficoltà dei medici.

Provai a rincorrere i medici e Thomas, ma le mie gambe tremavano. Avevo perso tutte le forze. I singhiozzi mi scuotevano tutta.

"Tom, Tom" gemetti. Volevo raggiungerli, dovevo raggiungerli. Ma il mio corpo non era d'accordo. Il medico che si occupava più propriamente di Tom, era rimasto indietro.

"Tom!" strillai con tutto il fiato che avevo, prima di accasciarmi al suolo e abbandonarmi a un pianto sfrenato. La gola mi bruciava, come pure gli occhi. E il mio cuore bruciava: di amore e di dolore.

Mi sentii una sciocca a rimanere lì, in mezzo al corridoio lindo di un ospedale, fra la gente in camice bianco e semplici e più tranquilli pazienti. Ero l'unica a fare scenate del genere. Nemmeno i bambini più piccoli si disperavano come me.

Ero debole, psicologicamente e fisicamente. Tom era in una sala operatoria e io, invece di rimanergli accanto fino alla fine (dell'intervento oppure... non osavo nemmeno pensarci, nonostante il pensiero mi riempisse la testa al punto da farla quasi esplodere, in una tortura di un dolore senza pari... della sua vita), come gli avevo promesso, stavo ferma a piangere. Lui al posto mio sarebbe stato più forte. Il bambino dentro di me si sarebbe vergognato della madre.

Tirai su col naso e cercai di alzarmi. Ricaddi giù. Il mondo iniziò a ruotare intorno a me, scurendosi sempre di più. Alla fine, il nero.

Svenni e basta.

Quando rinvenni, il medico di Tom era chino su di me con un ventaglio. Mi teneva coricata con le gambe sollevate. Un'altra infermiera mi tamponava il viso, le tempie e i polsi con uno straccio bagnato e piacevolmente fresco. Un signore di passaggio mi diede una zolla di zucchero. Una signora un sorso di acqua fresca.

Ma il mio primo vero pensiero che formulai appena iniziai a stare meglio, fu LUI.

"Tom, Tom" sussurrai "Dov'è, dov'è? Voglio andare da lui..."

Il semplice sforzo di pronunciare quelle poche parole mi stremò e scivolai di nuovo distesa sulle fredde piastrelle dalla posizione seduta.

Il medico mi diede qualche schiaffo leggero sulle guance, finché non mi tornò il colorito.
Quindi mi aiutò ad alzarmi in piedi. Ringraziai rapidamente e distrattamente chi mi aveva soccorso.

Tutti i miei pensieri erano però concentrati su Tom.

"Voglio andare da Tom" dissi con fermezza al medico.

"Mi dispiace, signorina, ma non può. Lo stanno operando"

"Non morirà, vero, dottore?"

Mi guardò solo gravemente. Uno sguardo, nient'altro.

"Mi segua, signorina..."

"Mi chiami Jessica"

"Va bene, Jessica, io sono il dottore Arthur Rambold. Mi chiami pure Arthur. E mi dia del tu"

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