Chapter 37. Buona sera, professoressa Vause

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Mi sentivo impotente. Guardavo le persone che mi stringevano la mano, che volevano salutarmi, che volevano darmi una parola di conforto. Le guardavo ma non le vedevo. Passavano davanti a me come un qualcosa che non riuscivo a sentire nonostante io percepissi la loro presenza. Non ascoltavo le parole che mi dicevano, sapevo che sarebbero stati i soliti cliché di persone che volevano starti vicino, che volevano che tu sapessi che "ora lei sta meglio". Sinceramente, non me ne fregava un cazzo di quello che dicevano. Non avevo bisogno della loro parola, come non avevo bisogno della loro presenza. Volevo stare da sola, ecco tutto. Il vocio sommesso e convulso, condito a svariate parole d'affetto e di "condoglianze", riempiva ora la mia testa oltre che all'ala del cimitero dove avevamo portato la nonna. Guardavo mia madre, in quell'abito nero, in quell'espressione contrita del suo volto, dove ora non scendevano più lacrime. Mio padre le stava vicino, un braccio le circondava le spalle. Non riuscivo a capire se in loro dovessi vedere un esempio di straordinaria forza o di una fragile struttura. Raggiunsi Cal all'entrata del cimitero, dove stava salutando gli ultimi amici e parenti che avevano partecipato alla funzione.

"Cal vado a casa", dissi.

"Non puoi aspettare?"

"No", e non riuscii a sentire quello che mi stava dicendo perché avevo già preso la strada di casa.

Era venuta anche Merida al funerale, ma le chiesi di aspettarmi a casa e di non venire al cimitero. Larry mi aveva chiamato, dicendomi che avrebbe voluto venire in chiesa, ma gli dissi che non volevo molte persone intorno e che di sicuro sarei stata sgradevole, quindi non venne. L'aria era gelida e mi entrava in ogni parte del corpo lasciata libera dal cappotto. Non avevo nemmeno la forza di pensare. La nonna se n'era andata, così. Non aveva disturbato nessuno, non aveva avvisato nessuno. Pensavo alle parole del sacerdote dette alla messa. Parole che davano speranza, che davano coraggio, che dicevano che si deve andare sempre avanti, che bisogna credere nell'amore e nella volontà di Dio. Quelle parole erano talmente belle e perfette che sembravano tutto fuorché vere. Il mio rapporto con Dio era da sempre strano e travagliato. Intimo oserei dire, ma forse oserei troppo. Ero convinta che ognuno avesse una relazione propria con Dio, il proprio linguaggio per poter parlare con lui. Mi venne in mente in quel momento l'ultima volta che avevo parlato con la nonna, a Natale. Ricordo che mi aveva chiesto cosa avessi, ma le risposi con noncuranza, all'epoca pensare ad Alex mi faceva solo stare male e parlarne mi faceva stare peggio. Se avessi saputo che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui l'avrei vista, non le avrei taciuto una parola, le avrei parlato di tutti i miei dubbi, le mie incertezze, le mie paure. Avrei narrato ogni piccolo particolare, pur di avere un consiglio da lei, un aneddoto, un qualcosa. Invece no. Mi ha lasciato, così, su due piedi.

Davanti alla porta di casa, trovai Merida. Mi abbracciò forte. La feci entrare e parlammo un po'.

"Come stai Pipes?"

"Sto"

"Vuoi che..."

"...parliamo della nonna? Di oggi? No ti prego, non ho voglia di parlare"

"Va bene"

"Anzi, devo dirti una cosa". In quell'istante il telefono squillò. Era Alex. Non avevo molta voglia di parlarle, ma le risposi lo stesso.

"Ehi"

"Ehi, Piper"

"Come va?"

"Come stai tu?"

"Sto"

"Vuoi che venga da te?", si era offerta anche di accompagnarmi a casa la mattina dopo che la mamma aveva chiamato, ma dissi di preferire tornare in treno perché avevo bisogno di stare un po' per conto mio.

"No, tranquilla. Adesso parlo un po' con Merida, noi ci sentiamo più tardi, okay?"

"Okay, a dopo. Ti amo"

"Anch'io", e riattaccai.

"Era Larry?", chiese Mer.

"No, non era Larry"

"E chi allora?"

"E' quello di cui ti devo parlare Mer. Ascoltami", e mi misi a raccontare tutto d'un fiato. Alex. Io. Noi. Di quello che era successo. Di quello che volevo dire a Larry. Tutto. Merida non mi interruppe mai. Semplicemente rimase lì, seduta davanti a me a guardarmi.

Finii di raccontare e restammo in silenzio.

"Tu sai quello che stai facendo, vero?"

"Sì"

"Piper sei sicura al cento per cento di quello che dici e fai?"

"Al 99%"

"E quell'uno per cento?"

"Non lo so, la solita incertezza? Sfiducia negli altri? Paura di essere abbandonata?"

"Mmm", si alzò e andò verso l'appendiabiti.

"Mer che succede? Ho detto qualcosa di male?"

"Assolutamente no, Piper. Ti voglio bene e ti appoggerò sempre, ma dimmi una cosa prima..."

"Sì"

"Se mai dovessi avere il minimo dubbio su Alex, se quando parlerai con Larry, lui ti perdonasse e ti dicesse di riprovarci, mi prometti che ci pensi su?"

"Mer dai..."

"Piper promettimelo...promettimi che se quando sarai di fronte a Larry e quell'uno per cento fosse ancora in ballo...dimmi che ci ripenserai..."

"Te lo prometto"

"Bene, adesso devo andare da Kieran, ti scrivo stasera", mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò.

Andai in camera mia, abbassai le tapparelle e mi sdraiai sul letto, a pancia in su. Mi resi conto che l'oscurità era un'ottima coperta. Per pensare, per ricordare, per piangere.

La sera, Alex mandò un messaggio a Piper per chiederle come stava e Piper disse che la testa le scoppiava e che l'avrebbe chiamata la mattina dopo. Riattaccò e si mise a leggere un libro sul divano. Non aveva fame e quindi la cena avrebbe aspettato. Di lì a qualche minuto, suonarono alla porta. Non aspettava nessuno e non aveva la minima idea di chi potesse essere. Guardò dallo spioncino e si bloccò. Non avrebbe mai pensato che davanti casa sua si presentasse... lei. Ma dopotutto, avrei dovuto immaginarlo, pensò. Se non avesse aperto, di sicuro lei non si sarebbe arresa, a costo di fare una tenda sul pianerottolo. Si sistemò ed aprì.

"Buona sera, Merida"

"Buona sera, professoressa Vause".

Just a girl in a bar || WATTYS2016Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora