3 Capitolo

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  Per quando arrivarono i miei genitori, mi ero già fatta la seconda doccia della giornata e potevo sentire l'odore di vaniglia del bagnoschiuma nell'aria e su tutto il mio corpo.
Non c'era bisogno che mi mettessi il profumo.
Mi ero arricciata i capelli e mi truccai.
Misi fondotinta, cipria, un ombretto chiaro, il mascara, un po' di fard e un rossetto rosso acceso.
I rossetti rossi mi piacevano moltissimo e ne avevo tantissimi di ogni marca possibile.
«Tesoro sbrigati, se no facciamo tardi» urlò mia madre dal piano terra.
Avevo deciso di mettermi una canottierina nera con una gonna stretta in vita bianca con una finta cinta color oro.
La gonna mi arrivava molto più su del ginocchio ed era una delle poche gonne che avevo.
Non mi piaceva far mostrare le gambe, anche se Mike e mia madre volevano che osassi di più.
Presi la borsetta nera e mia madre mi fece mettere obbligatoriamente delle scarpe nere con il tacco.
Ero sicura che a metà dell'evento della sera mi sarei tolta quelle maledette scarpe. Decisi di mettere dentro la mia borsetta un paio di sandali comodi neri che non prendevano molto spazio.
Infine presi una giacca elegante nera e mi guardai allo specchio.
Stavo molto bene dovevo ammetterlo, ma quei vestiti non facevano per me.
Preferivo i jeans alle gonne.
La berlina nera di mio padre era parcheggiata davanti all'ingresso e i miei genitori mi stavano aspettando.
Mio padre era vestito con la solita giacca e cravatta, mentre mia madre aveva optato per un tubino nero che le stava divinamente, con sopra una giacca quasi identica alla mia.
Durante il tragitto in auto mi tolsi le scarpe e mossi le dita dei piedi.
Cercavo di far stare il più possibile i miei piedi fuori da quel paio di trappole.
L'aperitivo si svolgeva a casa del datore di lavoro di mio padre.
Era una villa magnifica, molto più grande della nostra e con un grande giardino, che era stato addobbato a festa.
«Trey» disse un uomo distinto che si stava avvicinando verso di noi.
Qui tutti gli uomini presenti sembravano dei pinguini: giacca e pantaloni neri, camicia bianca, papillon nero o cravatta.
Per caso, nell'invito c'era scritto di mascherarsi da pinguino?
No perché io non l'ho letto.
«Cameron» disse mio padre mentre stringeva la mano all'uomo.
Non ero mai andata alle cene o agli aperitivi di lavoro e non mi ero mai interessata su chi fosse il datore di lavoro di mio padre.
Da come salutava mia madre capì che non era una persona qualunque, ma era Cameron Evans, il capo della società per cui lavorava papà.
«Questa è tua figlia?» domandò a mio padre sorridendomi.
Mio padre gli rispose di si con un tono orgoglioso nella voce.
«Anche io ho un figlio, ma è più grande di lei» spiegò Cameron a mio padre e poi voltandosi verso di me «Sarà in casa, dopo te lo presenterò» mi disse affettuosamente.
Il giardino era pieno di persone vestite elegantemente e sembravano molto snob.
Le signore portavano gioielli di ogni tipo e anelli alle dita che dovevano pesare quintali.
I signori, invece, come avevo detto prima sembravano pinguini.
Prima che Cameron entrasse in casa a chiamare suo figlio, mi fece segno di seguirlo.
Non potevo crederci, era una casa stupenda anche dentro.
Muri bianchi e i mobili antichi, il caminetto, la tv ultra moderna, i divani disposti per avere una buona visione della televisione e più camminavo in quella casa più mi stupivo della sua bellezza.
Volevo trasferirmi lì all'istante.
Signor Evans mi adotti per piacere!
«Ti chiami Asa, vero?» mi chiese lui.
Io annuì e continuai a seguirlo fino a quando non iniziò a salire le scale per andare al piano di sopra. «Aspettarmi qui torno subito».
Mi ritrovai in quella casa da sola e dovevo aspettare che il padrone di casa mi facesse conoscere suo figlio.
Quando vidi scendere Cameron non mi aspettavo di vederlo.
Chad aveva una camicia bianca con l'ultimo bottone sbottonato e un paio di jeans.
«Non può essere!» dissi mentre io e Chad ci guardavamo sorpresi.
«Tu che ci fai qui?» mi chiese lui sorpreso.
«Sono qui con la mia famiglia» gli risposi educatamente.
Cameron capì l'antifona e tornò dai suoi ospiti, lasciando me e suoi figlio da soli.
«Non sapevi che fossi figlio del datore di lavoro di tuo padre?» mi chiese lui mentre scendeva le scale.
Lo faceva con una lentezza snervante, che se avessi potuto lo avrei spinto fino a quando non fossero finiti.
«Non sapevo il tuo cognome. Quindi non potevo associare te a tuo padre» spiegai.
Quando fummo più vicini lui mi squadrò ancora come aveva fatto le altre volte.
Non sapevo a cosa stesse pensando, ma non ero così in intimità per chiederglielo.
«Hai ragione. Io sono Chad Evans, piacere Asa Scott» disse mentre si andava a sedere sul divano.
Come faceva a sapere il mio nome e cognome?
Ah! Lui conosceva me più di quanto io conoscessi lui.
«Puoi chiamarmi Asa, s-se vuoi» dissi balbettando.
Perché ora balbettavo?
«Tu puoi chiamarmi Evans. Grazie» disse lui serio.
Ma-ma come si permetteva? Stronzo!
«Fai come vuoi. Io preferisco starti lontano e non parlarti più!» dissi arrabbiata.
Io facevo la carina cercando di fargli capire che mi dispiaceva per quello che era successo alla festa.
Mi sarebbe piaciuto diventare amici e lui mi trattava così.
STRONZO!
Quando me ne stavo per andare fuori lui sospirò e mi fermò. «Aspetta, mi dispiace. Vieni qui».
Mi voltai verso di lui ed incrociai le braccia al petto e mi avvicinai al divano dove Chad era seduto.
Mi fece segno di sedermi accanto a lui e lo feci.
Tra noi ci poteva passare un tram da quanta distanza c'era.
Nessuno dei due parlava, ma dopo un po' lui provò a sciogliere il ghiaccio con una domanda sbagliata. «Vuoi qualcosa da bere? Ovvio, qualcosa di analcolico».
Lo guardai e mi misi a ridere.
Non so se lo aveva detto per gentilezza o per sfottermi, ma non me ne importava. «Dell'acqua, grazie» risposi.
Chad si alzò e andò in cucina a prendere quello che gli avevo chiesto.
Per la seconda volta rimasi da sola in quella villa e quando Chad tornò con il mio bicchiere d'acqua lo ringraziai.
Non tardò a tornare il silenzio ed eravamo rimasti seduti sul divano per molto tempo.
Non avevo mangiato niente e il mio stomaco stava brontolando.
Chad se ne accorse e sorrise. «Vuoi mangiare qualcosa?» chiese.
«Volentieri, grazie» gli risposi.
Ci alzammo dal divano e lo seguì in cucina che era grandissima e con elettrodomestici all'avanguardia.
Aprì il frigo, ma non ci trovò niente da mangiare.
«Spero che a te non piacciano gli aperitivi che ci sono là fuori» disse lui chiudendo l'anta del frigorifero.
Guardai verso il giardino pieno di persone e dovevano esserci cose da mangiare costose e non mi andavano proprio. «Non mi vanno».
Lui ci pensò su. «Che ne pensi di andare da qualche parte a cena?» chiese.
Accettai e pensai che dal silenzio di prima all'invito a cena, avevamo fatto passi da gigante.
Lui era più grande di me e quindi aveva la patente. E con i soldi che avevano i suoi potevano permettersi un'auto tutta sua.
Prima di partire avvertimmo i nostri genitori che stavamo andando via.
L'auto di Chad era in garage e quindi lo seguì fino ad una grande stanza sotto terra.
Il garage poteva ospitare dieci auto, ma in quel momento ce n'erano solo quattro.
Una berlina nera simile a quella di mio padre, una cabrio rossa, un'auto d'epoca e un Hummer H2 nero lucidato da poco.
Come faceva a stare una cosa simile dentro un garage così?
Lui premette il tasto di sblocco delle portiere e i fanali lampeggiarono.
Quando mi avvicinai al lato del passeggiero ed aprì la portiera per entrare, capì che avrei avuto diversi problemi per salirci.
Non gli avrei mai chiesto di aiutarmi a salire e quindi dovevo cavarmela da sola.
Come potevo salire su quel bestione di auto senza fare altre figuracce?
In più avevo la gonna e dovevo cercare di non mostrare le mutandine a nessuno, anche se in quel garage c'eravamo solo io e Chad.
Mi guardai intorno per trovare qualcosa che faceva al caso mio, ma oltre le quattro auto non c'era nient'altro.
Quando Chad si accorse che non ero ancora salita, fece il giro dell'auto e si fermò a guardare le mie imprese per salire.
Cosa faceva lui?
Se ne stava appoggiato alla macchina con le braccia conserte e rideva.
«Per favore non metterti a ridere. È già troppo imbarazzante così» dissi coprendomi il viso con le mani.
Lui si avvicinò a me quel tanto da aiutarmi a salire.
«Non ho bisogno del tuo aiuto» dissi fallendo un'altra volta.
Lui tornò ad appoggiarsi all'auto e continuò a fissarmi. «Chiama quando vuoi una mano».
«Tranquillo, ci riuscirò anche da sola» risposi.
Forse dovevo accettare il suo aiuto, ma ero così concentrata nel mio scopo da non riuscire a capire che senza di lui non ci sarei mai riuscita.
Sospirai sconfitta e mi girai verso di lui. «Mi aiuteresti a salire?».
Lui mi si avvicinò di nuovo e grazie alle sue dritte riuscì a salire da sola.
Se le mie mani erano impegnate a fare altro che cosa teneva giù la gonna?
La risposta giusta è: nessuno.
Se vi dico che c'era una maniglia con cui potevo aiutarmi dall'inizio e io non l'avevo vista, voi ci credete?
Quando alla fine ero su quel trabiccolo, Chad andò al lato del guidatore e mi guardò negli occhi. «Mi sono dimenticato di dirti che sei molto carina vestita così» disse.
Ero arrossita e lo ringraziai balbettando.
Fino a quando ebbi le guance rosse guardai verso il finestrino e non incrociai mai il suo sguardo.
Per tutta la cena parlammo come facevano due vecchi amici e mi piaceva chiacchierare così con lui, ma sono sicura che il giorno seguente non si sarebbe avvicinato per parlare.
Non abbiamo parlato di noi, ma del più e del meno. Quindi non lo conoscevo affatto.
Mi riportò a casa e mi aiutò a scendere da quel trabiccolo e mi salutò.
Entrai in casa e andai in camera per togliere il trucco e me ne andai a dormire.
Non avevo mai passato una serata così bella, neanche con Mike.



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