56. Foto ricordo nauseante

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- Do you call yourself a fucking hurricane like me? Pointing fingers 'cause you'll never take the blame like me? 
Halsey, Gasoline.

8 Giugno, ancora Parigi, Opéra.

Quella foto mi ha ammazzato.

Mi ha davvero reso il cuore un po' più buio di prima, per quanto fosse possibile.

Mentre raccattavo le mie schifezze e tutti gli avanzi di questa breve permanenza all'hotel Joséphine, dal pavimento ho trovato un paio di Jeans, e nella tasca posteriore c'era uno di quei frammenti maledetti.

Un fottuto pezzetto di quella foto che Harry si è dovuto portare dalla Louisiana e rieccomi a piangere, ancora una volta, nella nuova stanzetta subaffittata.

L'hotel l'ho lasciato da ormai quasi un'ora, eppure quel microscopico pezzetto di cartoncino non ho smesso di guardarlo; in esso c'è proprio una parte del mio viso.

Mento e guancia paffuta e niente occhi. Giusto qualche boccolo ribelle, s'intravede.

Sul retro, di tante parole che potevano restare di ciò che mia madre ha scritto, ovvero Hai distrutto quel che resta di me, Josephine, quale poteva essere la parola che, ironicamente, è stata troppo ostinata per essere strappata via?

Resta.

La R è in realtà poco visibile e riesco a leggere chiaramente anche il di msuccessivo... La E è stata strappata via.

Mentre Resta mi tormenta, io mi sento già oppressa in questa nuova stanzetta che puzza di muffa; è davvero tremendo il posto, e presumo valga ciò che la pago, ovvero una miseria.

Nel frattempo mi ritrovo ad affogare nei miei stessi singhiozzi, alcune volte, percepisco un intenso bisogno di appioppare la colpa di tutto questo a qualcuno, perché non mi basta avercela con me stessa, non è mai sufficiente. Ed eccomi lì, che con egoismo e pura crudeltà, mi ritrovo a colpevolizzare mia madre: è colpa sua, se sono così. E' colpa della mia mamma, ad avermi messa al mondo, senza neanche il mio consenso, se sono obbligata a vivere con questo spirito assillante. E' lei ad avermi messa qui dentro, in questo corpo troppo segnato dalla fragilità e dalla morsa potente di ogni ferita. E' colpa di mia madre,che mi ha fatta così. Non sono io quella sbagliata. Vero? Non sono sbagliata, sono semplicemente nata in questo modo, e non posso far altro che prendermela con lei. Accusarla per i suoi stessi errori che continuano a condizionare la mia piccolissima vita di ventunenne; mi sembrano così pochi, i miei anni.

Poco più di dieci anni fa ero seduta nel bel mezzo di un enorme salotto con delle stupende bambole in mano, facendole giocare. E in quel momento probabilmente erano ciò che di più prezioso esisteva. Dei giocattoli, le costruzioni, un pezzo di carta con dei pastelli, un bambolotto pronto a rappresentare quel pizzico di innato spirito da crocerossina che c'è in ogni essere vivente di sesso femminile. Ed ecco che la mia vita era completata.

E pensare che neanche in un paio di anni, successivamente, avrei riscoperto l'odio e l'amore vero. Perché poi inizi a capire davvero cosa vuol dire amare. E solo dopo essere stati feriti, riscopri che amare è una magia che ferisce e che invita i propri demoni a danzare felici sui miserabili resti di una stupida battaglia contro te stesso. La colpa è di mia madre, non mia. Vero?

Vero che non è colpa mia?

Mentre ci rifletto continuo a torturare le mani ormai spaccate dalla quantità eccessiva di acqua con cui, al lavoro, sono costretta a trattare. Poi, dopo essermi trascinata nel bagno, afferro il marmo freddo e rigetto ogni speranza nel cesso. Tutto insieme al vomito.

Sono quattro giorni che va avanti questa storia, e alla fine ho messo in conto due probabili opzioni. Che il cibo francese faccia talmente schifo da rendermi intollerante a tal punto da sentire la necessità di rigettarlo ogni maledetta volta. O che i sensi di colpa che mi schiacciano lo stomaco e assottigliano l'anima mi facciano rimettere tutti i sentimenti.

Ormai è prassi, una fottuta prassi.

In pratica vado al lavoro che puzzo di vomito, perché non c'è un modo di sciacquarsi la bocca, se sei nel bel mezzo della metro, sotto gli occhi snob dei francesi, a fissare l'americana che ricopre le loro preziose strade parigine di vomito.

L'altra mattina ad esempio, prima che andassi da Chéz Clements (proprio il primo giorno di assunzione come schiava/lava piatti), è successo. Ho effettivamente vomitato sotto il Concorde e, subito dopo aver boccheggiato per riprendere aria, mi sono tranquillizzata un po'. Stavo andando completamente terrorizzata al lavoro e solo perché non conoscevo nessuno.

Solo perché sarei stata la nuova, quella americana, quella che non parlava la lingua e quella che stava lì, semplicemente per essere sfruttata. Poi mi sono guardata intorno e mi sono tranquillizzata. Di che cazzo avevo paura? Non serviva a nulla tutto quel timore, tanto avevo appena rimesso il croissant della colazione proprio in mezzo a un paio di persone. Magari gli avevo pure schizzato sulle scarpe.

Di fianco a me c'era un uomo che rideva, stava seduto a terra e con un cane accanto a lui. Era sporco e solo, se non per la compagnia del suo cane e probabilmente di qualche farmaco scaduto rubato dagli scarichi farmaceutici, o dagli ospedali, perché non era di certo per la birra se aveva quella faccia ormai storpiata.

"Tu es un exhibitionniste! Tu aimes vomir devant tout le monde?*" Mi aveva strillato tra le risate; non avevo idea di cosa stesse parlando, ma avevo deciso che ridere sarebbe stato carino, che magari mi avrebbe distratto dalla sensazione innaturale di contorsione allo stomaco causato dal vomito.

Ridendo con lui avevo anche deciso che mi sarebbe tanto piaciuto aiutarlo. Ma poi mi era venuto in mente che anche io ero nella merda e dovevo pure andare al lavoro.

Poi ci sono arrivata in perfetto orario, alla fine. Sana e salva, nonostante il vomito, e gli ultimi giorni sembrano essere passati in un fugace attimo tra le stoviglie sporche e i piatti incrostati di zozzume francese in quella cucina intrisa di odori nauseanti.

Che schifo ormai, che mi faccio. La nausea mi viene per me stessa. E, peraltro, ormai c'ho questo appuntamento col mio stomaco in cui, quotidianamente, lo ripulisco da tutto quell'ingarbuglio di marcio, di sensi di colpa che mi appesantiscono la coscienza, dal male che mi si incastra in ogni fessura ancora pulita in me.

Gli avanzi di Harry che c'ho addosso mi tormentano, in questo momento, mentre stritolo il marmo del cesso con le mani e mi ritrovo qualche ciocca di capelli in faccia, a ostruirmi il getto di vomito.

10 Giugno, New Orleans, Black Owl.

Sembra che tutti mi prendano per il culo.

Io ci provo a far finta che non mi stiano fissando. Ma stanno lì, a fissarmi come gli stronzi che sono, come se non capissi che ormai oltre allo strano personaggio che si finge un'artista coi capelli troppo lunghi e le sopracciglia perennemente aggrottate sono diventato pure un uomo col cuore spezzato.

Non mi vergogno ad essere me. Non devo, non dovrei mai farlo! Eppure tutti i favoritismi da parte di Niall mi creano un disagio innaturale. Liam, Louis, Cleo, persino Zayn sembra compatirmi! E ho ricevuto una chiamata da Dylan, il maggiore dei Malik; mi ha detto che non sarebbe tornato ma che mi aveva pensato, aveva pensato a tutto.

Fate sul serio, gente?

Voi mi pensate? Vi preoccupate?

E io, vi odio.

Io vi odio, odio chiunque mi ricordi Josephine. Perché è così che penso funzioni. Anche se di musica e di alcol ce ne stanno a bizzeffe – qui, dietro questo bancone, in quantità sufficienti da potermi distrarre dalla piccola bastarda che ormai si è impossessata di ogni mio istante – io sto qui a pensare che siete tutti stronzi.

Che l'amore non dovrebbe fare male così, dovrebbe solo far piangere di gioia. Proprio come faceva quell'angelo di Josephine. Rettifico, Lucifero, come si definì lei.



*Ma sei un'esibizionista! Ti piace vomitare di fronte a tutta questa gente?

The Runaway (Harry Styles AU)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora