Capitolo di Anna

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Scalcio ed urlò ma l'uomo con il cappuccio non vuole mollare la presa. Un altro uomo entra in scena, mi copre la bocca con la mano e poi con il nastro adesivo. È surreale, non può essere vero. Io, Anna, sono caduta nelle mani di due malintenzionati. Non ho nemmeno il tempo di pensare che mi ritrovo all' interno dell'ascensore, un uomo strappa con un colpo secco il nastro adesivo sulla mia bocca.
Mi intima di f

Io faccio segno di si con la nuca, usciamo dall' ascensore e loro mi guidano verso un auto nel parcheggio.
Non faccio nemmeno un suono durante il viaggio, sicuramente per la troppa paura, ma quando finalmente arriviamo a destinazione, un enorme spiazzo di terra ed erba, inizio a porgere un sacco di domande ma senza ottenere nessuna risposta.
Mi spingono con la forza su un elicottero che si libra nell'aria in men che non si dica.
"Dove stiamo andando?" Chiedo timidamente.
Nessuna risposta. Gli uomini conversano fra loro, dubito che capiscano l'italiano e tanto meno il russo.
Non mi rimane che mettermi comoda e piangere sperando di restare viva, i mie singhiozzi attirano l'attenzione dell'uomo seduto sul sedile accanto al pilota, un giovane dalla pelle scura e gli occhi lievemente a mandorla. Fissa il suo sguardo nel mio, è possibile che provi pietà per me? Lo prego e lo scongiuro di lasciarmi andare, nonostante lui non mi comprenda. L'uomo distoglie lo sguardo e ritorna a fissare il vuoto di fronte a lui.

Il pilota, un uomo anziano che assomiglia straordinariamente al giovane, fa atterrare l'elicottero ed una volta a terra mi dà delle istruzioni in italiano, un italiano incerto, sgrammaticato e praticamente incomprensibile. Ho l'impressione che non lo sappia, ed anche se capisse se ne fregherebbe. Mi suggerisce di tacere, salire in auto e non fare storie.
Per la seconda volta sono costretta a viaggiare, accucciata sul sedile posteriore e recito alcune filastrocche in russo, quelle che mia madre mi ha pazientemente insegnato anni fa. Incredibilmente riesco a trovare conforto in quelle rime, oppure crollo a causa dello stress, e mi addormento.

Io e la mia famiglia ritorniamo a piedi dalla chiesa ortodossa al termine della messa, mamma é ammantata nel suo cappotto, il capello le copre la fronte ma alcuni ciuffi biondi fuoriescono in maniera disordinata. Papà cammina rapidamente davanti a noi e senza nemmeno girarsi a guardarmi dice che non vedrò mai l'Italia, che é pericoloso e che potrei anche morire, gli chiedo di smetterla ma sembra non sentirmi, nonostante stia urlando la sua voce regna sempre sulla mia e niente sembra farla smettere. Apro gli occhi, nessun genitore che mi rimprovera, nessun grido, solo la certezza di essere stata rapita e di essere sola ora. Mi desto completamente ed osservo fuori dal finestrino dell'auto, il ragazzo dell'aria asiatica, fuma all'aperto.
Qualche istante dopo mi preleva dall'auto.
"Perché?" Chiedo, puntando i piedi a terra.

Il giovane pakistano stringe con forza il mio braccio, lo sguardo fisso davanti a sé.
"Perché fai questo?" Le lacrime rigano il mio volto.
Nonostante mi opponga alla sua presa sembra trascinarmi senza alcuno sforzo. Affretta il passo, senza degnarmi di uno sguardo. Entriamo in un edificio, all'interno c'è un cattivo odore, alle pareti sono appesi dispositivi elettronici vecchi di generazioni. Lui mi fa sedere dietro al bancone, alle mie spalle sono appesi un sacco di involucri ingialliti. Di fronte a me ci sono anche una serie di antiquati elettrodomestici: una lavatrice con lo sportello spalancato, dall'interno del cestello proviene un pessimo odore, muffa credo. Poi c'è un frigorifero ricoperto di calamite ed adesivi, dalla superficie ingiallita.
Posa un piatto sul bancone, sembra pollo allo spiedo asciutto, rinsecchito e freddo.

Per un po' gioco distrattamente con il cibo con la forchetta. Fisso le luride piastrelle bianche sotto di me, pensi di avere fame ed ho bisogno di mangiare. Prendo un boccone di pollo, non é il caso di essere schizzinosi in certe situazioni.
Guardo il mio adorabile coetaneo riporre oggetti, pulirne altri completamente assorto nelle sue mansioni. Non mi guarda nemmeno, fa come se non ci fossi. Ho l'impressione che pregarlo non servirà a nulla, sembra totalmente insensibile.
Guardo oltre alla finestra del covo, un vecchio negozio di elettronica abbandonato, situato in mezzo al nulla. Sono completamente smarrita, mi chiedo che cosa accadrà ora, se magari sto vivendo i miei ultimi istanti o sono solo all'inizio del mio viaggio di sofferenza. Penso: papà aveva ragione.

Umer ha pena di lei, vorrebbe dirle una parola di conforto ma non riesce a capirla. Prova a fregarsene ma la verità è che non riesce nemmeno a guardarla. Sarebbe più semplice se fosse morta ora, almeno non sarebbe costretto a vedere quegli occhi, occhi addolorati, gonfi dal pianto, occhi che ti pregano. Da altra parte si consola, questo é il loro primo ed ultimo incontro. Spera con tutto se stesso che il cliente non le faccia del male.

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