MI SENTO MORIRE

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SERA

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SERA

Andrea continua a dormire, ma questa volta nel letto della camera 15, reparto di ematologia pediatrica di Monza, oggi siamo riusciti a farlo trasferire: è forse il suo ultimo desiderio e non potevamo ignorarlo, così nel pomeriggio i due ospedali hanno organizzato il trasferimento in ambulanza con le dovute precauzioni. Arrivati a Monza, Andrea ha avuto una bellissima e festosa accoglienza da parte di tutti i medici e infermieri del DH e del reparto, in primis la sua dottoressa, Valentina D, che, appena saputo che il bambino era arrivato, è corsa a salutarlo felice, poi a ruota sono arrivati anche la dottoressa Veronica L, e il dottor Jankovic per un festoso saluto e per constatare le condizioni di salute del bambino.

Finalmente Andrea ha riacquistato un po' di serenità e il buon umore, oggi è stato veramente felice di essere ritornato a Monza. Come è strano il destino: il mio bambino è felice, non perché ha avuto in regalo un nuovissimo gioco o perché ha preso un bel voto a scuola, ma perché è ricoverato a Monza. Di fronte a queste malattie i desideri e i valori della vita cambiano radicalmente: si è felici per delle piccole conquiste, che in queste situazioni diventano delle grandi e significative vittorie, tanto da riuscire a reagire di più. Questo è il suo quadro emotivo, mentre quello fisico è disperato.

In serata, prima che il bambino si addormentasse in un sonno sereno, mi sono sentita malissimo, tanta tristezza e dolore hanno invaso il mio cuore. La malattia oltre alla vita gli sta portando via anche la dignità, io e mio marito insieme lo abbiamo dovuto aiutare ad arrivare in bagno, che si trova all'interno della stanza, pochi passi, ma lui non c'è la fa, ha bisogno di essere sorretto, troppo debole, le sue gambe cedono, non stanno più in piedi, siamo dovuti rimanere all'interno del bagno per aiutarlo a sedere, aspettare che facesse i suoi bisogni. Poi mi ha chiesto di essere aiutato a pulirsi e a rivestirsi, tutto con un'immensa fatica. Non è giusto che un ragazzino di quasi dodici anni, oramai abituato a fare tutto da solo nella sua privacy, sia costretto a chiedere aiuto per il più banale e semplice dei movimenti, vergognandosi di far vedere il suo corpo che cresce, senza poter fare diversamente. In quel momento non sono riuscita a fare a meno di guardare quelle che una volta erano le sue gambe e il suo sederino, ora sono solo ossa che tremano a stare in piedi. Non credo che ci sia dolore più grande per una madre: vedere il proprio figlio che giorno dopo giorno, si riduce, ad un piccolo scheletro, debole e consumato dalla malattia, fino a vederlo morire. Ed io mi sento morire insieme a lui.

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