Capitolo VIII

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Si allontanò dalla finestra, con i brividi a causa dell'aria fredda, ma restò a debita distanza da Byron. Neanche lui moriva dalla voglia di avvicinarsi, circospetto e titubante. Per questo si avvicinò ai bordi del letto e si mise seduta, ancora con le braccia strette al petto. 

Quando, da piccola, si era ritrovata a pensare al suo matrimonio non aveva mai riflettuto su quel momento, che pure era molto importante. Aveva solo sognato sulla cerimonia, i preparativi, il vestito e la festa, dimenticandosi completamente la prima notte. 

Perciò poteva solo affidarsi a lui, che di esperienza ne aveva molto di più di lei. Ma prima doveva trovare il coraggio. 

«Parliamo», gli propose quasi con un sussurro mentre lui si sedeva sul divano, con un braccio appoggiato lungo lo schienale e le gambe incrociate. Aveva parlato così piano che lui non era stato in grado di sentirla, per questo le chiese: «Come?»

 A prima vista aveva un'aria tranquilla, spaparanzato su quel sofà, nascondendo molto bene la tensione. Astrid fu costretta a ripetersi, trovando la forza di alzare la voce: «Parliamo un po'. Facciamo un gioco». Le era venuta in mente quella cosa su due piedi ma nell'istante in cui l'aveva detto si era resa conto che poteva sembrava una bambina infantile. 

Alzò la testa per osservare la reazione di lui e stranamente lo vide sorridere. Ne rimase stupita perché di fatto era la prima volta che le riservava un sorriso sincero, dedicato solo a lei, invece che uno di circostanza. La verità era che Byron era stranamente incuriosito da quella sua proposta, tanto da chiedere: «Quale gioco?» 

Sentendosi considerata, Astrid prese il coraggio e precisò: «Io dico una cosa di me che tu non sai. Tu dici una cosa di te che io non so». Essendo rimasti soli, Astrid aveva preso l'iniziativa e deciso che, in una circostanza simile, poteva permettersi di dargli del tu. In fondo erano sposati e non c'era niente di male, purché non fossero in compagnia. 

E lui non sembrò esserne dispiaciuto, anzi, non ci fece quasi caso. «Ci sono un sacco di cose che non sappiamo l'uno dell'altra», affermò Byron con ovvietà. 

Ma Astrid sapeva bene che cosa voleva rivelare quella notte, prima di tutto, e visto che era stata lei a inventare quel passatempo, decise che era giusto iniziare per prima. 

«Ho iniziato a suonare il pianoforte all'età di quattro anni. Tutti dicevano che assomigliavo molto a mia madre e così mio padre mi fece prendere lezioni. Le sue amiche dicevano sempre che, se non fosse nata in una famiglia nobile, sarebbe diventata una pianista. Mio padre era così fiero che fossi brava quasi quanto lei e gongolava davanti ai suoi ospiti. Mi faceva suonare in pubblico, anche se io ero molto timida, e tutti non facevano altro che dirmi che ero brava proprio come lei». 

Si sistemò meglio sul bordo del letto e si prese tutto il tempo per poter continuare la storia, incentivata anche dal fatto che lui la stava osservando e ascoltando, visibilmente curioso: «Nessuno mi ha mai parlato di lei, neanche mio padre, però tutti la nominavano, tra una frase e l'altra. Tutti la conoscevano tranne me e ciò mi faceva soffrire. Poi un giorno ho scoperto mio padre che piangeva, mentre mi ascoltava di nascosto... lui non piange mai, non dimostra mai le sue emozioni più deboli a meno che non si tratta di mia madre quindi ho capito che gliela ricordavo». 

Fino a quel momento era stato facile parlare ma stava arrivando la parte più difficile da ammettere. Per questo tirò un lungo sospiro ed aggiunse: «Ho smesso qualche anno dopo. Mi sono convinta che ho scelto di non suonare il pianoforte perché non volevo più essere paragonata a mia madre. Ma una parte di me ha sempre saputo che in realtà l'ho fatto per punire mio padre. Lui si è sempre rifiutato di condividere con me alcuni ricordi di lei e questo per me era il modo migliore di punirlo. Forse ti sembrerà un po' infantile ma era l'unica arma che avevo contro di lui. Non volevo più vedere mio padre piangere per lei senza sapere che cosa mi ero persa». 

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