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Tornai a casa, il pullman mi aveva fermato vicino, solo un tratto a piedi e respirai di nuovo l'aria del Tennessee.
Estrassi la chiave da sotto la pietra del vialetto ghiaioso di casa, per aprirla.

Quando spalancai la porta di legno venni avvolta da una folata di ricordi. La prima volta mi ricordarono i tempi con mia madre e la distruzione di mio padre, questa volta invece mi riaffiorarono le rivelazioni di James, quando facemmo l'amore prima di sapere tutto, abbandonandomi ai suoi segreti celati.

Tirai un sospiro arreso per richiuderla come quei ricordi nel cassetto che non aprirai mai più perché hai deciso di buttare quella chiave.
Salii i gradini e come sempre il solito gradino scricchiolò sotto il mio peso, apprestandomi a fare gli ultimi per gettare a terra il borsone.

Ora la mia priorità era andare da mio padre alla clinica. Ero mancata per troppo tempo, e non avevo più sue notizie da quando Rudy ruppe in mille frammenti il mio cellulare.

Richiusi la porta di casa, per avviarmi alla clinica. Arrivai di fronte, guardando l'edificio bianco e spoglio, quasi scrostato in alcuni punti, per alzare lo sguardo sulla sua finestra chiusa.

Avanzai con un magone in gola, per spingere la porta di vetro entrando.
Trovai la solita ragazza, che mi rivolse un sorriso ricordandosi probabilmente chi ero.

"La signorina Foster vero?" Congedò la mia supposizione con quella domanda, mentre annuii sforzandomi di rimandarle un sorriso poiché ora sapevo che gusto avevano ma non li usavo spesso o almeno non da quando...cacciai indietro lui rintanandomi nel presente.

"Venga. Suo padre Maicol è sempre nella solita stanza. Abbiamo preferito non dirle nulla al telefono. Non voglio che pensi che sia una cosa grave ma suo padre sta peggiorando" rivelò quelle parole fievole sull'ultima parte portandomi a girarmi verso il suo viso con uno scatto fulmineo, quasi da farmi male al collo.

"In che senso?" Le domandai accigliandomi e iniziando ad avvertire ansia dentro di me. Mentre pigiò il pulsante dell'ascensore che s'illuminò, mostrando ogni numerino.

"Ha un principio di demenza Senile, per ora è al primo stadio lo abbiamo dedotto da una Tac che il dottor Rowley gli ha fatto. Poiché ultimamente aveva comportamenti strani e non si ricordava chi fossimo e dove fosse. Molto spesso chiamava il nome di una Eleonor. Lei sa chi è?" Pronunciò quel nome che arrivò debole al mio udito, guardandomi negli occhi, ed il mio motore stava entrando in funzione collegando tutti quegli avvenimenti. Una demenza Senile. Mio padre. Ed io ero lì a preoccuparmi della mia vita senza James. Quanto potevo essere stata egoista? Mi stavo maledicendo.

Ritrassi un singhiozzo mentre le porte metalliche si aprirono con un suono metallizzato, richiudendosi per pigiare il secondo piano.

"Si. Era...mia madre. C'è una cura?" Le chiesi cercando di non far traballare la voce, sentendo i palmi della mano iniziare a pulsare e prudere.

Scosse la testa tristemente, riportando gli occhi scuri su i miei appannati.
"Gli stiamo dando dei farmaci, pasticche. Ma purtroppo non c'è cura. È a momenti" ammise in fine, mettendomi una mano sulla spalla, vedendo il mio sguardo puntare sulla piastra metallizzata dell'ascensore finché non si aprì, seguendo la signorina che mi lasciò davanti alla camera.

"La lascio sola con lui" affermò dolcemente aprendomi la porta come ad aiutarmi poiché forse non ero in grado di abbassare quella maniglia di ferro fredda, mentre acconsentii tirando fuori un sospiro pesante, per entrare.

Lo vidii girato di spalle, con una giacca nera e le mani intente a fare qualcosa, con la testa china.
"Papà" lo chiamai sommessa, sentendo gli occhi inumidirsi e fare un piccolo risolino tra gioia e tristezza.

Si voltò piano dalla mia parte con un sorriso come un solco sul volto, dove si formarono delle rughe d'espressione e zampe di gallina accentuate ai lati degli occhi vispi ma spenti.

Feci un passo avanti, tirando su con il naso mentre tenne le mani sulla cravatta per farsi il nodo.
"Cindy sei tornata" aveva la voce bassa e diversa, più pastosa. Divisi la distanza annuendo sentendo una lacrima scivolarmi lungo le guance per poi abbracciarlo.

"Papà. Oddio papà. Mi sei mancato. Perdonami perdonami." Ripetei suppliche mangiandomi le parole poiché le lacrime stavano rigando il mio viso. L'unica persona che non mi aveva abbandonato ma l'avevo fatto io. Come avevo potuto?! Mi stavo tartassando la testa, mi pulsavano le tempie. Sentii il suo calore avvolgermi e le sue mani dietro le mie scapole, fredde e dalla presa debole.

Gli presi il volto tra le mie mani calde, baciandogli le guance.
"Papà." Ripetei di nuovo incapace di dire altro.

Finché non mi scostò gentilmente, rivolgendomi un sorriso che mi rasserenò.
"Su via. Ci siamo visti stamattina. Com'è andata a scuola?" E se prima ero serena ora mi sentii la terra venire a mancare sotto i piedi. Esala un respiro mozzato dal pianto, per guardarlo negli occhi.

"Papà sono stata via" gli rivelai tristemente, accasciandomi sul letto che scricchiolò.
Mi ammonì con una mano come se stessi dicendo fesserie.

"Ascolta stasera uscirò con tua madre. Ti ricordi avevo parlato della mia promozione, ho ottenuto l'aumento. Andremo a quel
Nuovo ristorante che hanno aperto vedrai sarà contenta" quella rivelazione mi spezzò il cuore, cercai di trattenermi ma non ci riuscii, voltando il viso dall'altra parte mentre mi nutrivo delle mie lacrime che scivolavano sulle mie labbra aride. Scacciai con l'indice una lacrima, passandomi la lingua sul labbro per accoglierne una salata. Sembrava così entusiasta ed euforico.

Mi alzai in piedi cercando di ridestarmi e rivolgergli un sorriso caloroso pieno d'amore, quello che riempiva i suoi occhi.
Gli presi le mani rugose, accarezzandole con i pollici.
"Papà quel ristorante ha chiuso cinque anni fa. Io ho compiuto diciotto anni ed Eleonor...non c'è più papà. Mi dispiace" ammisi la verità che mi dilaniava l'anima come i suo sguardo che s'incupì mettendo un cipiglio sul volto stanco.

Si gettò tra le mie braccia, iniziando a piangere come un bambino, mentre lo cullai come se fossi sua madre. Era vero che quando s'invecchiava si tornava bambini. Non L'avrei più lasciato. Lui aveva bisogno di me, lui era quello che mi faceva tirare avanti con le fatiche. Lo scostai debolmente per vederlo annuire, raccogliendo un fazzoletto per passarglielo sul viso.

Gli tolsi la giacca e sfilai la cravatta, per farlo stendere nel letto, versando in un bicchiere un po' d'acqua per dissetarsi.

Lo prese con le mani tremanti portandoselo alla bocca dando un piccolo sorso, il giusto per bagnarsi le labbra screpolate.
"Ti voglio bene figlia mia" un tuffo al cuore a quelle parole soffiate con dolcezza e delicatezza.

Mi misi a sedere sulla sedia, andando più vicino al lettino, prendendogli la mano fredda tra le mie calde, lasciandogli un bacio delicato sulla fronte.
"Ti voglio bene papà" ammisi soave, prima di vederlo addormentarsi coccolandogli i capelli brizzolati, poggiando la testa sul suo ventre coperto dalle lenzuola bianche.

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