Capitolo 40 - Amore improvviso.

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Socchiusi gli occhi, poiché sentivo le palpebre talmente pesanti che mi pareva impossibile aprirle anche soltanto un po', ma i raggi di sole che penetravano dalla finestra, colpendo violentemente il mio viso, mi recarono un certo fastidio, mettendo così fine al mio sonno pesante.

Mi guardai intorno e quando feci per mettermi seduta, con la schiena dritta, la testa cominciò a fare male e tutto attorno a me vorticò.

Mi posai due dita sulle tempie e cominciai a massaggiarle, tentando di ricordare cosa fosse accaduto la sera prima ma non trovai nulla, nemmeno nell'angolo più remoto della mia mente.

Era come se all'interno della mia testa si fosse creato un grande buco nero che aveva risucchiato qualsiasi ricordo.

O, perlomeno, tutto ciò che era accaduto dopo essere entrata in quel fetido bar.

Perché quello che mi era capitato prima era ancora vivido e impresso nel mio cervello e provocava un dolore bestiale, un senso di vomito e disgusto che non avevo mai provato prima di allora, un mix di emozioni talmente orribili che risultavano difficili da controllare.

Una cosa, però, non mi era chiara e non capivo: come ci ero finita nella mia camera del campus?

Scossi la testa, dicendomi che avrei chiesto informazioni alla mia migliore amica, nonché compagna di stanza, non appena l'avessi vista.

Poi mi alzai dal letto in cui ero sdraiata, sentendo tutti i muscoli del mio corpo intorpiditi e un sapore amaro in bocca e, con non poche difficoltà, riuscii a raggiungere il bagno dove mi lavai velocemente i denti, donando un sapore di menta fresca al mio alito che, potevo scommetterci, puzzava come una discarica a causa dell'alcol ingerito la sera precedente.

Mi sciacquai il viso e quando mi guardai allo specchio vidi nel riflesso un mostro: il mascara era colato sulle guance, due occhiaie scure contornavano i miei occhi chiari, mettendo in contrasto e in evidenza il fatto che non avessi per niente una bella cera.

Ero inguardabile.

Mentre mi passavo un asciugamano sul volto, sentii la porta della camera aprirsi e subito le voci dei miei due migliori amici.

«Ma dove diavolo è finita quella matta?» sentii esclamare a Sharon «Fino a dieci minuti fa dormiva come un ghiro», continuò.

Poi, la risata di Trevor e due colpi alla porta del bagno.

«Scommetto che è qui dentro», disse lui.

«No ti sbagli», dissi aprendola e subito entrambi mi avvolsero in un abbraccio confortante.

«Dio, Ally, come ti senti? Ci hai fatto preoccupare tutti, ieri», fece Sharon, con le lacrime che quasi minacciavano di scendere dai suoi occhi azzurri come i miei.

Mi sentii maledettamente in colpa.

«Come una che ha preso una bella sbornia, non volevo farvi stare in pensiero comunque», risposi, andando a sedermi sul mio letto ancora disfatto.

Era raro che dalla mia bocca potesse uscire la parola "scusa", ma avevo cercato di far capire loro la mia intenzione, che erano riusciti a cogliere al volo.

«Scuse accettate, tranquilla! Ma non farlo mai più», esclamò Sharon.

Poi, un pensiero attraversò la mia mente.

«Ma... come avete fatto a trovarmi e portarmi qui?» chiesi confusa.

«Questa volta la troppa ansia di Sharon è servita a qualcosa. Era in pensiero perché eri fuori da troppo tempo e ha telefonato nel momento stesso in cui sei svenuta. La ragazza che lavora lì ci ha avvisati e, dopo essere arrivati, ti abbiamo portata in ospedale dove ti hanno fatto qualche flebo e poi siamo tornati al college», spiegò rapidamente Trevor, come se ricordare la sera precedente gli provocasse fastidio.

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