15° capitolo

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Ogni divisione aveva la sua palestra e le sue interminabili e sconfinate aule, stanze e laboratori.

Chris mi aveva lasciata da sola in palestra di sera tardi. Alcune pareti erano rosse, la maggior parte direi. La palestra era abnorme a più piani, visibili anche.

Per non parlare degli esercizi sospesi tra il pavimento e la volta di venti metri. Chris mi spiegò che erano esercizi per chi non era schiavo della gravità, volava o generava salti eccezionali. A naso all'insù osservai tutto, corde, sacchi da box, bersagli, muri da rompere e vetri da infrangere.

La mia tenuta da palestra era leggings nero, una t-shirt nera con due fasce bianche che partivano da sotto le maniche fino lungo i fianchi con la scritta bianca sopra "A1 Division" e sotto scritto "Investigation company", o un top nero con la stessa scritta.

Scarpe da ginnastica con la suola in memory, le più leggere ed ergonomiche che i miei piedi avessero mai calzato (anche se il memory non mi serviva con il plantare ortopedico); e dei guanti mozzati neri e bianchi da allenamento e prese ginniche sempre sporchi di borotalco.

Mi avevano imbrachettato così, ma niente ginocchiere e gomitiere: mi dissero che dovevo iniziare ad avvertire il dolore e sopportarlo.

C'erano degli specchi dappertutto, il mio riflesso ovunque e i miei occhi in unica direzione: il terreno. Non volevo guardarmi, non mi piacevo affatto.

Camminavo su travi di equilibrio, sollevavo pesi, correvo, tiravo a pugni, facevo addominali e flessioni in interrottamente, ma mi sembrava di rimanere sempre al punto di partenza.

Sollevai un bilanciere con pesi da trenta kg, lo sollevai e lo misi al suo posto appoggiandomi all'asta d'acciaio.

Premetti la fronte conto le mie braccia appoggiate al bilanciere.

«Cosa sono io?» mi chiesi.

La mia autostima stava facendo progressi, ma nonostante ciò mi sentivo incapace di fare qualcosa, sempre incompleta.

Alzai lo guardo e vidi due occhi marroni scuri che mi guardavano: erano i miei nello specchio.

Non mi sentivo mai all'altezza di niente e nessuno, l'unica cosa che sapevo era una sola: non ero mai abbastanza.

Senza farlo a posta entrò una ginnasta minuta, sottile e leggera. Non sapevo cos'era, ma fece delle prese fantastiche alle parallele asimmetriche, lanciandosi verso l'alto e ritornando giù con delle giravolte e avvitamenti sofisticati. Lei sì era una di quelli che non erano schiavi della gravità.

Tisha entrò da una delle porte, sempre con quel suo fare militare.

«Brava» le disse, le ricordò un paio di cosucce e poi la ragazza annuendo sparì da capo.

«Che ci fai qui?» mi vide.

«Mi allenavo» risposi non muovendomi da quella posizione.

«Ti alleni fissando i bilancieri?» mi chiese sarcastica a voce alta.

«Allenamento mentale» risposi con lo stesso tono sarcastico.

Credo averla irritata perché me la vidi addosso e mi spinse all'indietro.

Era una dei responsabili della divisione A1 nonostante fosse così giovane.

Le mie chiappe toccarono terra con violenza.

«Allenati! Non vedi che sei caduta!? Se fossi stata all'altezza staresti rimasta in piedi!» mi urlò.

«Lo so» risposi sommessa.

Cristallo e DiamanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora