Capitolo 43

243 41 49
                                    

Carla

Suonai al campanello e lo sentii ronzare nel corridoio. Venne ad aprirmi mio padre. Dietro di lui, sbucavano le teste di Federico e Mattia.
<<Non ti ruberò molto tempo. Devo riprendermi una cosa che ti ho dato.>>
<<Ma se me l'hai data...>> fece mio padre, sbattendo ripetutamente le ciglia. Notai con sorpresa che non indossava la sua tuta da palestra, inequivocabile segno che qualcosa di straordinario stava per accadere.
<<Non importa.>> Mi infilai in casa. <<Tanto a te non serve.>>
<<Cos'è?>>
<<L'album che ti ho regalato. Quello dove c'erano delle fotografie mie.>>
Lui si grattò in cima alla basetta destra. Faceva così quando non sapeva che cosa rispondere. Vidi che dietro di lui la tavola del soggiorno era stata apparecchiata sontuosamente.
<<Non so dove l'abbia messo...>> confessò. <<È così importante per te riaverlo?>>
Stavo per rispondere che sì, era importante. Javier continuava a non rispondere né alle mie telefonate né al citofono, e se non lo avessi più visto volevo conservare almeno un ricordo materiale di quell'esperienza di vita e riprendermi il mio album. Ma mi uscì fuori solamente un: <<Va bene. Rifletterò sulle tue parole.>>
Stavo per andarmene, quando apparve Natasha. Non la guardai in viso, ma mi accorsi che era lei dalla lunga coda di cavallo bionda che faceva scendere morbida sopra un seno. Creava nell'aria un alone dorato.
<<Credo che le ultime persone che l'abbiano visto siamo io e Gianmi.>> Questi era piantato al suo fianco, ritto come un orologio a pendolo. <<L'ho messo vicino ai DVD dei miei saggi. Aspetta, te lo vado a prendere. Dev'essere qui...>> La sentii dire dalla sua camera. <<Eccolo! Tieni!>> Me lo porse. La copertina color bronzo era ancora intatta.
<<Grazie>> dissi.
<<Aspetta!>> Natasha mi trattenne per un polso. Si sporse verso la cucina aprendo la porta socchiusa con la punta delle sue scarpette bianche. <<Mamma! Carla può rimanere a cena?>>
Teresa venne fuori con un grembiule a pois rosso e un panno buttato sopra una spalla. Aveva un'aria davvero affaccendata e sembrava invecchiata di almeno vent'anni. Prima di rispondere alla figlia, sbirciò oltre le nostre spalle. <<Federico! Quante volte ti ho detto che su quel tappeto ci si va scalzi? Guarda quante patacche ci hai lasciato!>> Poi alternò lo sguardo da me a Natasha. <<Perché?>>
<<Viene a vedere sempre ogni mio saggio.>> Mi sorrise. <<Mi piacerebbe vederla anche in altre occasioni.>>
<<Mi ci trascinano ai tuoi saggi>> borbottai. <<A Roma a quanto pare esiste solamente quel tipo di attrazione.>>
Natasha sorrise, mi prese per mano e mi condusse al tavolo. Fece aggiungere un posto in più, accanto a lei e davanti a Gianmarco. Ci sedemmo e nell'attesa contai i posti a tavola: erano otto, non sette.
La premura e gli sforzi culinari di Teresa avevano plasmato solamente dei piatti raffinati ma monotoni ed esigui, come pasticci di legumi e ortaggi, con lattuga rigorosamente biologica, perché per <<zia Christine>>, come la chiamava Natasha, la carne faceva male, gli affettati oltremodo, i carboidrati facevano ingrassare, gli zuccheri meglio evitarli, le bevande gassate gonfiavano e le verdure al vapore riempivano sempre la cucina di un odore sgradevole.
Zia Christine –che in realtà si chiamava Cristina- era la sorella di Teresa e arrivò in un tailleur nero, bionda spumeggiante come Brigitte Bardot (di cui cercava di imitare anche l'acconciatura) ma con un naso dalla punta che si torceva verso il basso che rendeva la sua bellezza un po' dura e spaventosa, a volte. Per il resto, aveva una faccia sempre molto sorridente e, benché fosse dichiaratamente nubile, nessuno riusciva mai a smacchiare la sua solita espressione stralunata ed estasiata, tipica di un animo irrimediabilmente romantico che si sarebbe commosso alla vista di due rondini che volano in coppia.
<<Ciao, fatina mia.>> Si avvicinò alla nipote e le baciò i capelli. <<Ti vedo, sai? La tua mamma mi manda sempre le foto dei tuoi spettacoli. Anche in quegli scatti, immobile, sembri una delizia. Une merveille!>>
Ebbe un po' più di difficoltà a salutare i due gemelli, che si stavano prendendo a forchettate nella testa e a pugni nello stomaco. Li salutò con un cenno della mano e loro risposero con un'occhiata distante e annoiata.
Non li distingueva l'uno dall'altro e non sapeva neppure i loro nomi. Aveva trascorso un semestre in Francia quando era all'università, da giovane, e da allora era tornata a Roma come una studiata e artefatta donzella parigina, e se il mio fratellastro si chiamava Mattia, lei lo chiamava Mathis, e anche l'altro piccolo demone doveva subire la stessa triste sorte, e diventava Frédéric. Una volta aveva osato chiamarmi Carla Bruni. Poi il demone le aveva detto che in realtà mi chiamavo Karina e nessuno aveva fatto alcuna battuta. Carina non ero affatto, quindi era calato il silenzio.
La francese mi guardò socchiudendo gli occhi. Dubitavo che si ricordasse di me.
<<Carla>> disse Natasha.
<<Karina>> precisò Federico. Gli lanciai un'occhiata torva.
Toccai poche volte il piatto e strinsi il mio album tra le mani, schiacciandolo sulle gambe. Non volevo che Christine lo vedesse, altrimenti avrebbe voluto sfogliarlo e, commentandolo, sua sorella le avrebbe fatto capire che non era il momento adatto per concentrarsi su una figuretta inutile e indecente come me, e io avrei fatto fatica ad indorare l'allusione e ci avrei sofferto. Quindi rimasi ferma a dondolare le gambe sotto il tavolo. Per errore, assestai un calcio sullo stinco di Gianmarco. Borbottai alcune scuse.
<<Non mangi?>> mi chiese.
Non lo sentivo rivolgermi parola da memoria d'uomo. Solamente questa constatazione servì a sorprendermi. Per il resto, se lo guardavo, non vedevo nient'altro che un bel viso e due occhi molto luminosi. Mi chiesi come avessi potuto soffrire tanto per lui.
<<È tutto ricco di potassio e ferro>> mi sussurrò Natasha, battendo la forchetta al margine del mio piatto.
La guardai: capii che non si accorgeva che quel suo continuo, torrenziale e superfluo precisare diventava esasperante. Era sempre stata abituata a sfoggiare le sue scoperte, e lo faceva con una tendenza quasi nevrotica. Mi fece un po' tenerezza.
Ricominciarono a parlare dei loro progetti e io ne fui esclusa, rimanendo parcheggiata, come un'estranea, nella tavola delle nobildonne dai grandi sogni. Tutto girava attorno all'arredamento della nuova villetta che Christine aveva in mente di progettare, al trucco sfolgorante delle attrici hollywoodiane sul tappeto rosso, alle nuove tecniche di epilazione, ai viaggi in Norvegia e alle mostre d'arte nei paraggi. Mio padre non si intrometteva. Come me, ascoltava in silenzio. Sapevo bene che lui non era affatto tagliato per quel mondo di raffinatezze, ma provava ad incastrarcisi, in qualche modo.
Decisi di rifugiarmi dentro la mia nuvola di noia continuando a bere acqua.
La francese chiese a Gianmarco se quello che c'era a tavola era buono per i denti. Teresa rispose che non era ancora diventato dentista.
<<Devo studiare prima Medicina e Chirurgia>> precisò Gianmarco.
<<E tu sei ancora dell'idea di fare la fotografa?>> mi chiese Natasha.
<<Eh?>>
<<Mi avevi detto che ti sarebbe piaciuto diventarlo.>>
Non ricordavo di aver raccontato una simile bugia, ma, se lo avevo fatto, era stato per una buona causa. Quindi annuii. <<Finché non cambierò di nuovo idea, sì.>>
Mio padre sbriciolò l'insalata sotto i denti e le sue guance si gonfiarono. Posò la testa sull'indice, prendendo a fissarmi, pensieroso. Quando ebbe ingoiato, disse: <<Fotografia artistica?>>
<<Cosa?>>
<<Cosa vuoi fare? Fotografare modelle? Servizi fotografici a gente sconosciuta, magari appena incontrata?>>
Non stavo capendo e feci spallucce. Lui sollevò una mano, con il palmo aperto rivolto verso l'alto, e la fece scivolare su e giù, indicandomi.
<<Devi saperti porre davanti alla gente. Nessuno vorrà farsi fotografare da una persona sciatta che forse farà sembrare i suoi soggetti sciatti.>>
Mi guardai, nel silenzio che si era creato. Indossavo ancora la lunga gonna di jeans con cui avevo ballato a casa di Emanuele e una camicetta nera, ma non avevo fatto a tempo ad andare a casa per cambiarmi d'abito.
<<Devi imparare a vestirti. Quanti anni hai? Diciassette? No, diciotto>> proseguì. <<Devi essere elegante e giovanile. Natasha>>, guardò la figlioccia, <<quando abbiamo finito di mangiare falle indossare qualcosa di tuo. La taglia non andrà bene, ma potrà comprarsi qualcosa di simile.>>
Non avrei neanche potuto comprarmi il foulard che indossava Natasha. Sembrava fatto di carta velina. Da quando avevo lasciato il centro estetico di Teresa, senza davvero alcuna giustificazione accettabile -la verità era che non sopportavo la vista di tante belle giovani che venivano lì per quelle sciccherie- non riuscivo a raggranellare neppure un soldo.
Mio padre rimase a guardarmi, in attesa di una risposta, con grande aspettativa. Forse si aspettava che dichiarassi che ero veramente dispiaciuta. In realtà mi alzai, mi umettai le labbra con il tovagliolo e mi scrollai la polvere dalla mia gonna. Sapevo che quello era il momento in cui avrei visto quella casa per l'ultima volta.
<<Non sono io che devo provare ad essere come voi>> mi uscì detto, mentre mi avvicinavo alla porta. <<Siete voi che dovete provare ad essere me.>> Non lo pensavo, ma fu una bella sensazione credere di pensarlo e andare via.
-------------------------------
Maddalena

I cinque nomi di Roma Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora