Capitolo 26

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Riccardo

Sporsi la testa fuori dal finestrino, poi la ricacciai subito dentro arricciando il naso. Scorsi, dalla porta aperta del suo negozio, il cartolaio di Via del Moro addentare con appetito un panino dal quale colavano gocce di olio. Individuai nell'aria un odore ristagnante di cipolla. Il solito espositore di cartoline era quasi vuoto: per festeggiare, il cartolaio aveva comprato anche una birra. La trangugiò con gusto.
<<Perché avete voluto accompagnarmi per forza? Potevo farlo anche da solo.>>
<<Perché siamo tuoi amici>> rispose Alessandro. Poi gettò un'occhiata sopra la sua spalla, verso i sedili posteriori. <<A dirla tutta, ha insistito lei.>>
Mi parve di cogliere una nota sconsolata nel modo in cui terminò la frase. Guardai anche io Maddalena.
<<A cosa devo queste attenzioni?>>
Maddalena fece spallucce, ma non riuscì a sostenere il mio sguardo a lungo. Iniziò a fissarsi le dita con uno sguardo indecifrabile, muta.
<<Eravate insieme prima?>> domandai.
Alessandro annuì. Poi prese a martoriarsi il labbro inferiore con le dita, guardando fuori dal finestrino. Sul cruscotto era piegata, dentro una fodera trasparente, la mia scheda di allenamento in palestra. La prese e iniziò a farvi scivolare sopra lo sguardo con lo stesso interesse di circostanza con cui si leggono i biglietti augurali natalizi.
Poi Alessandro si destò e disse: <<Tu dov'eri prima?>>
<<Al corso di recitazione.>>
<<Sembra una parola grossa detta da te.>> Alzò le sopracciglia.
<<Infatti. Sono a zero carbonella. Non so modulare la voce e memorizzare le battute, però mi tengono per pietà. Inoltre non sono l'unico fallito lì dentro. C'è un tipo che si rifiuta di dire parolacce, anche se sono scritte nel copione. Oggi non voleva dire fottuto. Credo che provenga da una famiglia nigeriana di bigotti che ancora credono nel padrenostro prima dei pasti. Che poi Shakespeare scriveva per la madonna! nei suoi testi, non vedo perché uno non possa dire fottuto.>>
Alessandro inclinò la testa sulla spalla, con uno sguardo tra l'ironico e il compiaciuto. <<E tu ovviamente sei un esperto di Shakespeare. Che notizia superlativa!>>
<<Non l'ho detto io. Lo ha detto Antonella.>>
Mi guardò come se attendesse spiegazioni.
<<Ho promesso di portarla a cena fuori prima o poi.>>
<<Allora non potrai ordinare neppure un po' di Chianti. Agli occhi suoi sei ancora tipo da biberon.>>
Sorvolai sulla stoccata. Non volevo che mi ricordasse il modo in cui lasciavo intavolare ad Antonella una discussione ogni volta che eravamo insieme, fuori dal teatro, a fumare magari una sigaretta. Non mi piaceva principiare un discorso con lei, perché non ne avevo. Inoltre venivo sempre colto dal timore che, a parlare troppo, non trovassi un freno e potessi lasciarmi sfuggire qualche dettaglio succoso sulla mia famiglia, sulla violenza, la possessione e la gelosia che incatenavano mio padre a mia madre. A ripensarci, però, ero oramai maggiorenne e i servizi sociali non potevano entrare nei meriti della mia famiglia. Io, più condiscendente di Linda, avevo forse scelto di adattarmi a quella convivenza bruta. Ma era proprio del mio consenso che mi vergognavo.
<<Sarà come dici tu.>> Feci spallucce.
Maddalena infilò la testa tra me e Alessandro. <<Non è tua madre quella che sta uscendo?>>
Azionai il tergicristalli e aspettai che le sue braccia nere lubrificassero il parabrezza. Assottigliai lo sguardo: una tela di acqua offuscava l'immagine di mia madre che usciva correndo dal troneggiante palazzotto del suo amante. Stava varcando il portone con affanno e ansietà. Il cappellino di lana grigia le spingeva la frangia bionda sugli occhi, e anche con la testa alta non riusciva a guardarsi veramente intorno e non mi notò. Distinsi entrambe le sue mani raggiungere le guance e stirare la pelle. Solamente dopo qualche istante capii che si stava scacciando le lacrime dal viso.
Avevo deciso di seguirla perché la sua sospetta evasione serale, quasi rocambolesca, mi aveva fatto intendere ci fossero delle novità spiacevoli. Aveva atteso che mio padre scendesse nella sua officina sotto casa per imbracciare la sua vecchia borsa in ecopelle arancio e precipitarsi per le scale sulle punte degli stivaletti. Da quando era ritornata Linda per le vacanze di Natale, cercava di preparare la cena con zelo e passione, prendendo a sfogliare libri di ricette già alle cinque del pomeriggio. Aveva promesso che anche quando mia sorella fosse ripartita si sarebbe impegnata con la stessa dedizione, e così era stato: consegnava portate abbondanti, accorgendosi solo in un secondo momento che gli avanzi sarebbero bastati per altri due giorni, perché noi tre non eravamo più una vera famiglia che si riuniva a tavola con appetito. Ma questo a lei non importava: ora si doveva mangiare alle sette e mezza, come tutte le altre famiglie del quartiere, che si ritiravano nelle cucine alla stessa ora. Lo capiva dalle luci accese, lei. Dopotutto trascorreva ogni giorno le ore del tramonto sul balcone, accanto ai bidoni della spazzatura e ai ciclamini che non innaffiava mai, e sentiva i rumori casalinghi dei vicini, il tintinnio dei piatti che venivano posati sulle tovaglie, una madre che urlava al figlio di aiutarla ad apparecchiare, una moglie pregava il marito di lavare i piatti, almeno per quella sera. Immaginava che dovessimo adottare le loro stesse abitudini, trasferire la loro realtà nella nostra vita, ricamando l'orlo di quel palcoscenico con altre finzioni, come un sorriso tra un bicchiere d'acqua e un altro o una carezza sui miei capelli.
Ma a casa, quella sera, non c'era nessuno che stava preparando il solito purè di patate che a mia madre piaceva tanto.
Senza aggiungere altro, scesi dall'auto con un balzo, fuori di me. Non avevo più la percezione del mondo materiale: sentivo i miei istinti scissi dal corpo, veloci e sfuggevoli, slegati da qualunque forza terrena in grado di trattenerli. Essi stavano prendendo vita propria e si stavano librando nell'aria. Forse ero il protagonista di una tragedia teatrale nel cui copione era scritto che tutti gli altri personaggi sarebbero dovuti morire per mia mano.
Attraversai la strada senza neppure guardarmi attorno e raggiunsi il piccolo portico del palazzo. Premetti le dita con forza su ogni campanello. Si sentii dapprima un ronzio prolungato, poi il silenzio. Una testa femminile si affacciò da uno dei piani superiori e mi imprecò contro. Poi qualcuno aprì il portone.
Non mi voltai a guardare Alessandro e Maddalena che mi stavano correndo dietro. La collera non mi avrebbe permesso di interpretare il loro sguardo, ma sarebbe stato sicuramente di disapprovazione.
Salii i gradini due a due. Mi reggevo al poggiamano delle scale e lo facevo tremare come una campana di ottone.
Maddalena mi urlò di fermarmi. Intanto Alessandro mi aveva raggiunto con la velocità di una gazzella. Mi afferrò per una spalla. Mi divincolai e lo spinsi contro una pianta appoggiata sull'angolo del pianerottolo.
Mi piazzai davanti alla porta del secondo piano da cui avevo visto uscire mia madre settimane prima. Ricordavo ogni dettaglio: i pannelli di legno che la incorniciavano, il pomolo laccato d'oro e il nome stinto sul campanello.
Mentre sferravo manate e pugni sulla porta, rivolsi uno sguardo carico d'aspettativa davanti a me, senza guardare nessuno in particolare: si era risvegliato in me, ribollendo, un violento istinto protettivo, uno sfacciato impeto filiale.
Quasi incespicai quando la porta venne aperta. A colpo d'occhio, notai che il pianista portava delle bretelle e un paio di lucide scarpe laccate di nero. Lo presi per la camicia bianca e lo tirai contro di me.
<<Ha deciso di non dartela più?>>
<<Chi sei?>> rispose l'uomo con voce strozzata.
<<Il figlio della bella donna che ti porti a letto.>>
Aspettai di vederlo farsi rosso in viso sotto la forza delle mie nocche che premevano contro la sua gola. Intanto i suoi occhi si spalancavano come spaventati. Lo allontanai da me e, mentre barcollava all'indietro verso un tavolino rotondo appoggiato sopra un tappetino persiano, gli assestai un pugno sulla mandibola. Lui scivolò a terra battendo i gomiti. Tentò di rialzarsi facendo leva sullo sgabello davanti al pianoforte a coda. Claudicò verso la tastiera e vi si appoggiò. Note austere e tremolanti riecheggiarono nell'aria. Sul parquet cadde uno spartito. Lo guardai con il cuore che galoppava veloce.
Stavo per lanciarmi all'assalto un'altra volta, ma Alessandro mi prese le braccia e me le incrociò dietro la schiena. Scalpitai e riuscii a liberare un gomito. A quel punto mi assestò uno spintone nel fianco, facendomi rantolare a terra.
<<Lo perdoni>> lo sentii dire al pianista. <<Riccardo voleva ricevere solamente spiegazioni.>>
L'uomo alzò la testa, come rimanendo in ascolto dell'eco delle sue parole. <<Riccardo...?>>
Bestemmiai tra i denti e mi rialzai. Sentivo gli angoli delle labbra umidi e infiammati. Raccolsi lo spartito a terra, lo accartocciai tra le mani e lo lanciai al petto del pianista oltre la spalla di Alessandro.
<<Sono io che dovrei perdonare te. Tu e la tua musica del cazzo. Mi hai fatto odiare ciò che più amavo al mondo.>>
Il pianista manteneva un'espressione ferma e censoria. Il suo viso era tirato e non sembrava lasciar trasparire alcuna emozione. La sua neutralità mi fece andare in una sorta di cortocircuito mentale: volevo che rispondesse anche lui con una calca di pugni e mi pestasse a sangue. Avevo voglia di assaporare la violenza e sopprimerlo con odio. Ma lui se ne stava in piedi con le sue ginocchia molli, come un fedele adepto di un'ideologia basata su compostezza e arrendevolezza.
<<Sei sicuro che sia proprio io il colpevole?>>
Avvertii acutamente il principio di un'allusione. Lui sapeva che era stato mio padre ad impedire che io, come mia madre, continuassi a mettere le mani sui tasti.
<<Perché sei qui... Riccardo?>>
<<Mia madre è uscita di qui piangendo.>>
<<Non l'ho fatta piangere io.>>
Lo guardai in attesa.
<<È stato tuo padre>> rispose sommessamente con fare definitivo.
Mi sbracciai. Maddalena mi artigliò con le unghie prima che mi slanciassi in avanti, ma fu Alessandro a frapporsi fra noi due. Mi offendeva il modo in cui quello sconosciuto svuotava la figura di mio padre di ogni bene. Sapevo che il mio vecchio era psichicamente alla deriva, che nel suo cranio brullo riposava solamente un odio per il mondo, per me e per mia madre, ma lo avrei difeso fino allo stremo perché gli appartenevo, ed era mia anche la sua strategia di difesa attraverso l'attacco.
<<Tuo padre l'ha minacciata. Dice che si trasferirà al Nord da tua sorella se continuerà a vedermi. Le toglierà anche la sua pensione di invalidità. Davanti ad uno scenario simile tua madre non saprebbe più come crescerti e mantenerti.>>
<<Allora esci dalla sua vita.>>
L'uomo annuì e piegò lo sguardo a terra, impacciato. Alessandro si sporse verso il mio orecchio e mi disse: <<E tu dovresti uscire da questa casa. È la sua e tu l'hai appena violentata.>>
Feci come mi suggerì. Prima che varcassi la porta, però, il pianista mi raggiunse, mi toccò una spalla e mi allungò qualcosa. Mi voltai. Mi prese il palmo della mano e vi posò lo spartito che avevo accartocciato.
<<È Tristesse di Chopin, la versione originale. Strano come tu abbia scelto proprio il tuo pezzo preferito da lanciarmi.>>
Quando la porta fu chiusa e i miei nervi si sciolsero, e io provavo a tornare padrone del mio corpo, tentai di figurarmi alla mente il volto di quell'uomo. Con mia grande sorpresa, mi accorsi che non lo avevo veramente guardato: non sapevo se fosse alto, se avesse gli occhi verdi, azzurri o neri, se fosse biondo o bruno, giovane o più attempato. Volevo sfregiare un volto che neppure ricordavo.
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Scusate il piccolo ritardo, ma sono all'estero e mi riesce difficile scrivere e controllare i capitoli.
Che ne pensate dell'incontro tra Riccardo e l'amante di sua madre? Ci sono alcuni piccoli indizi di qualcosa che accadrà...
Fatemi sapere! Votate e commentate!

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