Carla
Tutto si riempì di Claire de lune. Trovavo quel brano troppo sopravvalutato, troppo sfruttato: nelle pubblicità, nelle accademie musicali, come colonna sonora di dolori insormontabili. E poi era troppo equilibrato e lineare. A me sarebbe piaciuto danzare sopra musiche nervose che si attorcigliavano, che si scaldavano, si arroventavano, che manifestavano i dissidi interni di un compositore combattuto tra due destini. Doveva essere una melodia senza risoluzioni, una di quelle che facevano sorgere dogmi che poi rimanevano aperti, irrisolti. Doveva essere il ritmo della mia vita.
Natasha era entrata da poco sul palco come un ragnetto. La sfiorai con lo sguardo, ma ero ben decisa a non guardarla. Presi a fissare i faretti puntati sopra i sipari aperti, ma si spensero, e l'eccitata atmosfera dell'attesa venne orlata di luci rosse. Possedeva un qualche polo magnetico che però mi costrinse a guardarla. Sembrava un angelo precipitato all'inferno, o in qualche altro luogo fatto di angosce e brutture, in cui però doveva riuscire a danzare, leggiadra ed evangelica.
Prima di iniziare, rivolse un breve cenno verso l'alto. Forse dedicava un pensiero al cielo, ripensava al padre che era morto e non si accorgeva che il mio, invece, si estraniava da me per guardarla incantato, studiando ogni frazione dei suoi movimenti, ogni particolare. Aveva l'occhio abituato a questo, e poi non poteva dare un dispiacere a Teresa, che, al suo fianco, con le mani intrecciate davanti al petto, attendeva di sentirsi dire che la figlia <<sfarfallava>>.
Decisi categoricamente che quella composizione di linee e forme non mi piaceva. Era una danza che si trascinava senza meta, senza raggiungere un punto di svolta, piatta. Mi annoiava e impigriva, e la mia schiena scivolava sempre più verso il basso.
Natasha percorreva cerchi, si stendeva sulle punte, portava le braccia ad arco sopra la testa, poi volteggiava e volteggiava ancora, e tutto quel muoversi sembrava non avere mai una fine.
Così, soffermandomi sui pensieri che scaturivano dall'invidia che mi attanagliava la gola, non avevo visto la realtà per quel che era, e la verità mi venne incontro solamente quando Claire de lune terminò. Natasha si era ripiegata sul pavimento in legno lentamente, come un petalo che cade dopo una lunga sospensione nel vuoto. Nel tripudio delle luci che si riaccesero, distinsi la sua bocca ben fatta, come le labbra vellutate e tonde.
Mio padre applaudì: lo faceva sempre, era un rito che faceva parte del suo culto. Era questo quel che lei in realtà era: una figura divina e sacra, un modello di una bellezza universale, da appendere in una mostra. Doveva esserci in quella folla qualcuno che la stava osservando e che tornato a casa avrebbe preso a figurarsi il suo volto e a dipingerlo, seguendo le indicazioni della memoria, facendone un soggetto ideale, scrivendo della sua bellezza in una poesia. Emanuele, che non aveva le mie stesse scarne nozioni di letteratura, l'avrebbe definita senza esitazioni una nuova Beatrice, una nuova Laura, una funzione artistica. Quella donnicciola da Dolce Stil Novo sarebbe piaciuta anche a Javier: l'avrebbe fotografata. E chissà, Gianmarco, invece, come la vedeva. Gli sarebbe piaciuta. Pareva l'attrice di un qualche quadro antico, e l'arte, in un modo o nell'altro, affascina tutti. Tappai il suono di quel nome che vorticava nella mia testa: la mancanza era il motore dei miei turbamenti, ed io volevo essere indolente.
Venne il momento di un'altra ballerina e dalla terza fila mio padre commentò la sua esibizione in tono puntiglioso. Mi chiesi come le critiche di un uomo che aiutava la gente a tirar su chili di pesi potessero essere in qualche modo autorevoli e attendibili. Però dall'alto della sua poltrona sportiva giudicava le gambe tozze, la pesante pressione dei piedi sul pavimento, l'equilibrio precario delle braccia e una coordinazione che si manifestava a fasi alterne.
<<Non balla questa qui: è un'ape che ronza senza il suo... (ah, come si dice in italiano?)... pungiglione>> disse.
In realtà, io non trovavo differenze tra le due esibizioni. Il semplice fatto di sapersi muovere, oltretutto davanti ad una folla nutrita, faceva anche dell'altra ballerina una sorta di mito ai miei occhi. Ma Natasha era per me indiscutibilmente la più elegante-perché era Natasha-, ma doveva esserci qualche ragione tecnica che io non riuscivo a cogliere, ma mio padre sì.
Federico, come un bue, spingeva la testa contro il fianco della madre, impaziente e insofferente, e trovò un po' di sollievo quando lo spettacolo si concluse. Natasha ci venne incontro e mi tirò con sé dietro ai sipari. Nonostante il concitato: <<Non puoi portarla con te. E' vietato>>, Teresa non riuscì a fermarla.
I miei jeans larghi, il mio cinturone e la mia camicia a quadri erano una stonatura ingombrante tra le figurette esili che si svestivano, liberandosi dei tutù e delle scarpette a punta e sciogliendosi i nodi tra i capelli con le spazzole luccicanti. Avevano tutte lo stesso tipo di capello: diritto e appiccicato sulla nuca, come il velo della Madonna Addolorata.
Il retroscena era uno spazio vuoto, largo e chiaro, corredato solamente di sedie, zainetti e lacci rosa abbandonati sul pavimento.
<<Mi devi aiutare. E' sempre difficile prendere questo e quello quando si lascia un teatro. Forse perché si lascia sempre un po' di sé, un'impronta dietro ogni palcoscenico. Tutto profuma di sforzo e vittoria>> osservò, recuperando il suo borsone rosa e infilandovi il nastro per i capelli e il tutù. <<Ecco, potresti aiutarmi a portare il borsone?>> sorrise gaia. <<Perché ho anche loro e, sai, non è delicato infilarli in un borsone. Di certo il galateo non lo consente.>>
Loro erano quattro rose rosse legate da una piccola cordella in fili d'argento. Le prese tra le mani e le annusò. Discretamente, si gettò un'occhiata alle spalle per accumulare reazioni: difatti, la congregazione di compagne alle sue spalle si stava scambiando sussurri curiosi. Natasha continuò a sorridermi. Forse era mossa a compassione, forse era felice, ma qualunque stato d'animo si addiceva a lei a metà: il riso perenne aveva un che di insincero, una naturalezza non appassionata, ma misurata. C'era poca mediazione del volto, non traspariva altro se non una certa serenità. Non c'era calore, stupore, sbalordimento.
<<Chi te li ha dati?>> le feci.
<<Un ragazzo... un tipo con cui mi frequento da poco.>> Si sporse oltre le tende del sipario. <<Dev'essere qui da qualche parte. Ma non voglio che ci si veda assieme. Preferirei che mia madre non sapesse nulla per il momento. Quindi mantieni il segreto, ti va?>> Senza attendere che annuissi, aggiunse: <<Anzi, tienile te le rose. Te le regalo. A te non faranno domande.>>
E uscii con i fiori in mano davvero e, come da previsione, nessuno si interessò alla cosa. Natasha mi fissava raggiante, ma non riusciva a stemperare il mio disagio e il mio imbarazzo.
<<Tutti gli occhi erano su di te, tesoro>> disse in uno schiamazzo emozionato e concitato Teresa quando fummo in macchina. <<Tutti i nostri conoscenti del quartiere si sono infilati a teatro per guardare te. Quanto vorrei essere come lei! sembravano pensare le tue compagne di scuola. Quella vipera di Alice poi proprio non voleva crederci che tu ricevessi tanti applausi. Ah! Ma visto? E bene... e poi anche la madre di Gloria ti guardava con un'invidia... si sarebbe mangiata le mani! Beh, la figlia è diventata più larga che lunga...>> E continuò con toni simili per tutta la durata del tragitto, spalmando le parole in un'eternità che sembrava inconcepibile e incommensurabile. Intanto io guardavo le rose che avevo tra le mani, frastornata ma eccitata: era caduta la notte sopra Roma e al buio sembravano appassite e fragili, ma quando una sferzata obliqua di luce che penetrava dal finestrino le illuminava, i petali tutti, come una corona di sangue, si accendevano di colori violenti che mi entusiasmavano. Era una gioia che non durava però a lungo: portavo in mano una dichiarazione d'amore che non era per me, e con le mie dita la sporcavo e corrompevo.
<<Ci andiamo a mangiare una pizza?>> chiese mio padre, alla guida.
Nello stesso istante, una spaventosa immobilità mi destò. La macchina era stata accostata al ciglio della strada, e oltre il marciapiede si distingueva l'alto e anonimo palazzo giallo in cui vivevo. Ebbi l'impressione che mio padre avesse contratto il viso in una smorfia sprezzante, domandandosi tra sé e sé come avesse potuto vivere tanto a lungo con mia madre in un viale tanto trascurato e fatiscente. Al bancone erano appese sempre delle lunghe lenzuola, che mia madre utilizzava per non lasciare che si vedessero le crepe che si diramavano come ragnatele lungo tutto il contorno. Se ne vergognava, ora che papà aveva grandi cifre nelle tasche e nuovi viziati sussiegosi da mantenere.
L'invito erotto spontaneo e intraprendente dalle labbra di mio padre non era rivolto a me. La speranza con la quale illudevo la nostalgia che avevo di lui e che era rimasta protesa in me venne delusa. Scesi bisbigliando un saluto e sbattendo con forza la portiera. Pensai che, dopotutto, non avevo neppure fame e né la pizza né altro mi andava. Rimasi a fissare la sua auto sfilare prepotente verso il bivio in capo alla via, come se stesse scappando da un ricordo marcio che la inseguiva.
Alla luce della mia camera le rose di Natasha sembravano sfiorite. Non mi piacquero improvvisamente più e decisi di buttarle.
Vicina al piatto di fagioli non ancora finito sopra la tovaglia sgualcita, mia madre inforcava i suoi occhiali da vista e stava piegata sopra alcuni fogli. I capelli pinzati distrattamente le conferivano un'aria da casalinga spossata e nervosa, ma in realtà era solamente una professoressa di scienze. Spesso dimenticava che insegnava solamente alle scuole medie e che non era necessario leggere manuali sulla didattica costruttivistica e transdisciplinare e sull'apprendimento cooperativo, ma avevo capito che infilare i suoi studenti in immaginarie gabbie fatte di disciplina, rigore e laboriosità l'avrebbe fatta sentire meno in colpa per non essere riuscita ad ammansire me.
<<Vedi... qui si dice che la valutazione dovrebbe essere raggiunta per mezzo di una discussione tra docente e discente... ma no, non è giusto.>> Si sfilò gli occhiali con un moto di stizza. Il forte accento ceco la faceva somigliare ad un generale russo che distribuiva ordini. <<La valutazione la scelgo io. Quando si metteranno in cattedra, allora la decideranno loro per gli altri. Quando ero a Brno le insegnanti decidevano sempre al posto mio. E io muta. Non si discuteva.>>
Alberto si affacciò dal cucinino con una pezza bianca tra le mani che faceva scorrere sopra un piatto. Le maniche della camicia arrotolate sul braccio lo rendevano domestico e laborioso. <<Non fare la slava. Non devi verificare ciò che lo studente sa fare o cosa ha imparato, ma come elabori personalmente le nozioni apprese. E i suoi veri costrutti mentali li conosce solo lui, ecco perché ci vuole la discussione.>>
<<No, no>> ribatté programmatica mia madre, impilando le dispense l'una sull'altra. <<Non ci riuscirò. Diranno sempre che sono troppo rigida ai loro genitori. Ma loro non lo sanno che cosa ho passato io! Vedi dove mi ha portato la mancanza di rigidità? Ho una figlia che sbanda nella vita. Pensa che si è sparsa la voce tra gli studenti che Karina ha lasciato la scuola: e allora ecco che non vogliono prendere lezioni da una che ha un'ignorantella in casa.>>
<<Dài.>> Alberto tornò ai suoi piatti e, dopo averli sistemati nella piccola credenza, si strofinò i palmi delle mani, annuendo. Appoggiò le dita sopra le spalle di mia madre. <<A Carla ci penso io. So che lei mi vuole bene. La riporterò sulla retta via. Vedrai che imparerà molto stando al mio fianco. Avevo in mente di portarla in libreria con me uno di questi giorni...>>
Uscii dal mio nascondiglio ed entrai in cucina con dignità severa e l'atteggiamento altero. <<Tu!>> Guardai Alberto. <<Non ho bisogno di te. Non avrai la tetraggine e l'apatia che improvvisamente ha papà quando mi vede, ma non sei lui e non lo sarai mai. Perché a me non interessa davvero se ho un padre o meno. Anzi, vorrei essere orfana, piuttosto che essere considerata una figlia adottiva.>> Il dito indice che tenevo alzato, come uno in uno di quei quadri in cui il Cristo sembra incolpare i suoi fedeli traviati, prese a tremare nell'aria. <<Ha fatto bene il bulldog a morderti anni fa.>>
Mia madre si mosse verso il lavandino con fare sconsolato. Non disse nulla. Rimase solamente Alberto, in piedi dietro la sua sedia. Avevo suscitato una strana fiamma che ora sfiaccolava e lingueggiava nei suoi occhi. Le rughe sottili sugli zigomi sembrarono gonfiarsi: stava sospirando. Nella sua reazione assente, c'era sorpresa mista a comprensione. In silenzio, incoraggiava il mio sfogo. Avrebbe dovuto rispondermi, prendermi a pugni, e non lasciarmi abbandonata in un monologo falso e tagliente. Volevo lotta e conflitto, volevo qualcuno che si opponesse a me, ma la mia parola non veniva mai confutata, perché non generava alcuna emozione: era aria inconsistente e inavvertibile.
<<E ora non dirmi che libro dovrei leggere per sentirmi meglio, perché lo so già.>>
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I cinque nomi di Roma
Ficción GeneralLa storia tratteggia le vite di cinque amici che vivono a Roma, un sottofondo pulsante e onnipresente, che annebbia agli occhi altrui le personalità di Maddalena, adolescente sensitiva dotata di poteri di chiaroveggenza, innamorata del bell'Alessand...