Capitolo 57

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Carla

Pensai che fosse una buona cosa ritrovare il proprio sangue, a volte. Poi, però, pensai anche a quanto sia sciocco e ipocrita fondare l'unione di una famiglia sulla base di un sangue che si condivide. E tutte le belle cose che succedono tra madre e figlio o tra fratello e sorella o cugini si giustificano con quella parte di scienza e di biologia che pretende di trascendere ogni spiegazione naturale, e tutto diventa così mistico e religioso. Il sangue può essere anche acre e maledetto, e ci può essere molto più odio tra consanguinei che tra sconosciuti, e io questo lo sapevo molto bene. Avrei preferito essere figlia del mondo e non avere nulla che, nelle vene, mi facesse da collante con questi e quelli, e scegliere da me i legami per cui vivere. E così i miei amici erano i miei fratelli, e i miei fratelli mi erano sconosciuti.
<<Perché sei venuta?>>
<<Così.>> Feci spallucce.
I due gemelli si scambiarono un'occhiata. Avevano sulle spalle i loro zaini. Dalle loro cartelle, che tenevano a mano, spuntavano le punte trasparenti di squadre e righe. Suonò una seconda campanella e uscirono gli ultimi studenti. Si evitavano le pozzanghere nei giardini e si correva verso la strada.
<<Che avete fatto oggi a scuola?>>
<<Io gnente>> rispose Federico. <<Mattia ha avuto la verifica di geografia. Ma gli è andata male.>>
<<Datemi i vostri libretti>> dissi.
Federico scosse energicamente la testa. <<Scordatelo! Se poi se lo dici a papà ti facciamo nera!>>
<<E chi lo vede più papà!>> Forzai una risata. Rimasero interdetti.
<<Vieni da noi oggi?>>
<<Ma dimenticatelo.>>
Mi consegnarono i loro libretti con sottomissione. Sbirciai tra i loro voti. Sotto ad ognuno, c'era la firma del loro insegnante e accanto quella di nostro padre. Li richiusi con impeto.
<<Andate proprio di merda a scuola. Quanti quattro...>>
<<Lo sappiamo.>>
<<Anche io sono sempre andata di merda. Siete come me.>>
Mattia inclinò la testa su una spalla. <<E ti dispiace?>>
<<M'arimbarza>> risposi. <<Se siamo così, siamo così.>>
<<Ci devi dire qualcos'altro?>>
Impallidii e fremetti. Iniziai a guardarli con una costernata e delusa espressione da bambina, ma pensai che erano loro i bambini e che sarebbe stato debole farli godere del mio stupore. O forse erano ancora troppo piccoli e non avrebbero potuto capire.
<<Sì>> mentii. <<Che non potete andare a casa da soli. Roma è pericolosa.>>
<<Non andiamo da soli>> disse Federico. Allungò il braccio e indicò la strada. <<Ci è venuta a prendere Nati.>>
Guardai nella direzione in cui indicava e vidi Natasha. Con la primavera aveva smesso le sciarpe pesanti e sfoggiava i capelli sciolti sul collo sottile e le spalle magre. Era in piedi accanto ad una BWM rossa e sbracciava per attirare l'attenzione dei gemelli e farsi vedere.
Era strano pensare che avevamo in comune due fratelli e che nessuna di noi due li possedeva più dell'altra, e che loro avessero nelle vene una miscela del mio e del suo sangue. Somigliavano però più a me. Avevano i miei stessi occhi e le mie stesse labbra sottili. Non erano belli come lei.
Quel giorno, Natasha aveva una nobiltà preziosa e raffinata tipica degli anni Venti. Me la immaginavo con la stessa finezza della posa ascoltare distratta le lusinghe di un uomo adulto, mentre reggeva un bastoncino da champagne tra le dita, e mentre l'uomo sognava le sue labbra rosse, lei pensava al focolare caldo di casa sua e al suo gatto persiano, e a come avrebbe voluto sgusciare sotto le lenzuola, dormire, nuda, quando tutti la bramavano e lei bramava solo se stessa.
<<Andiamo a casa di Gianmarco. È sua quell'auto. Ci ha invitato la sua famiglia>> spiegò Mattia.
<<E vi fidate ad andare in macchina con lui?>>
<<Sì. Mette della bella musica allo stereo.>>
<<Dei rapper finlandesi>> puntualizzò Federico.
<<E chi cazzo ascolta i rapper finlandesi? Non siamo neppure nel periodo natalizio!>> esclamai.
<<E tu che musica ascolti?>> Federico acciuffò un laccio della mia cuffia che mi pendeva sul petto e se lo infilò alle orecchie. Rimase per qualche secondo in ascolto, poi arricciò le labbra. <<La tua è davvero molto più brutta. È triste>> disse. <<Sei triste oggi?>>
Diedi una rapida occhiata al cellulare e lessi il titolo della canzone. <<Johnny Cash non le fa poi così tristi.>>
<<Meglio i rapper finlandesi.>>
<<Oh, andate al diavolo!>>
<<Io non ho detto nulla!>> si difese Mattia.
<<Non ci hai detto perché sei venuta qui però.>>
<<Passavo da queste parti.>> E per sembrare indifferente, presi dalla mia borsa di cuoio a tracolla un pacchetto di sigarette e ne sfilai una. La portai alle labbra e l'accesi. Poi buttai indietro la testa e scossi i capelli, come facevano le dive del cinema degli anni Cinquanta.
<<Fumi tanto?>> mi chiese Federico. Guardava la mia sigaretta con una sorta di attrazione.
<<Oh, solo quando me ne va>> risposi. <<Non lo sapevate?>>
Si guardarono e scossero la testa.
<<Dovreste iniziare a conoscermi.>> Presi la sigaretta e con le punte delle dita strofinai nel punto in cui erano rimaste le impronte delle mie labbra dipinte. La allungai a Federico. <<Forza. Prova.>>
<<Papà dice che non dobbiamo farlo. Fa male.>>
<<Tante cose fanno più male e papà non se ne è mai accorto.>>
<<Ad esempio?>>
<<La prendereste troppo sul personale.>> Gli misi la sigaretta proprio tra le dita e arretrai per guardarli, entrambi, spauriti ma eccitati, come fuori da un quadro. <<Non succederà niente con un tiro.>>
<<È con un tiro che inizia la dipendenza>> obiettò Mattia.
<<Beh, ma io sono ancora viva, no?>>
Federico sollevò gli occhietti e il filo screpolato delle sue labbra si distese in una smorfia maligna. <<Viva dentro o fuori?>>
<<Andiamo, piccoli bastardi!>> Feci per riprendermi la sigaretta, ma Federico mi respinse.
<<No>> disse. <<Provo.>> Sorrisi. Avvicinò la sigaretta alla bocca e intanto mi guardava, in attesa. Gli mimai con le labbra come dovesse inspirare. Provò ad imitarmi. Si dimenticò di buttar fuori il fumo che aveva succhiato, e proruppe in una gran tosse. Passò la sigaretta a Mattia. Lui la tenne tra le labbra a lungo senza inspirare. Ripetei anche a lui come dovesse fare. Succhiò, buttò fuori il fumo e sporse la testa verso la grande nuvola di nicotina e si mise a tirare su con il naso.
<<Non devi cercare di fiutarlo come un cane della polizia, santo Cielo!>> Mi ripresi la sigaretta. Diedi un ultimo tiro, poi la schiacciai sotto la suola degli stivaletti. <<Siete proprio dei bambini, si vede.>>
<<Non siamo dei bambini!>> si difese Federico urlando. Oramai eravamo rimasti soli, fuori il cancello della scuola non c'era nessun altro. A volte si intravvedeva, oltre le finestre, qualche bidella passare e rassettare i banchi, o strisciare la scopa sul pavimento.
<<Oh, sì, lo siete. Ma crescerete anche voi.>>
Dissi così e non risposi più a nessuna loro domanda. Si rispetta sempre molto chi fornisce poche delucidazioni. E mentre mi chinavo e fingevo di aggiustare loro i baveri delle maglie incastrati sotto le bretelle degli zaini, li sentivo fremere di paura. Quella sensazione di pericolo li soddisfaceva e seduceva. Iniziavano a credere che tutto quello che non conoscevano avrebbero potuto assaporarlo attraverso me.
Con la coda dell'occhio vidi Natasha attraversare la strada. Mi vide e sobbalzò. Sorridendo, alzò un braccio e mi fece cenno di avvicinarmi. Chiamò anche il mio nome. La ignorai.
<<Possiamo dirglielo che ci hai fatto fumare?>> domandò Federico.
<<Ma sei stupido? Non si dice mai ad una sorella quello che fai con l'altra.>>
Mattia si portò una mano davanti alle labbra e vi alitò sopra. Poi annusò. <<Puzziamo.>>
<<Direte che è l'adolescenza. Si puzza sempre quando si è piccoli.>>
<<Non siamo piccoli!>>
Poi andarono da Natasha e li vidi salire nella BMW rossa. Vidi la sagoma di Gianmarco spingersi oltre il sedile per sbirciare nella mia direzione. Partirono e rimasi sola.
Avevo creduto di poter imparare a voler bene, di poter dimenticare l'amore aspro e torbido, pieno di rancore e gelosia che provavo per loro. Invece sentivo un voluttuoso demone crescere come un'edera dentro di me, e qualcosa mi diceva: <<corrompili>>. Era il verme dell'infanzia che non dorme mai.
Mi sentivo perfida e perversa. Mentre tornavo a casa, provai a tranquillizzarmi. Pensai che la morale fosse una cinghia creata per tenere l'uomo lontano dalla natura. Perché in natura esiste il bene e il male, ed entrambi convivono nell'universo, e si può pendere dall'una o dall'altra parte, o restare in mezzo tra i due come piaceva a me, e sicuramente qualche filosofo in passato aveva detto qualcosa di simile, e io, pur non sapendo chi fosse costui, ero abbastanza intelligente da capirlo da me. Non sempre si può scegliere, e forse è proprio abbandonandosi al caso che si è più forti di se stessi.
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Da tempo non viaggiavamo nel mondo di Carla. Forse, tra i cinque, è quella che sembra non trovare mai pace con se stessa. Cosa credete che farà? Fatemi sapere!
Grazie mille a tutti!

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