Capitolo 6

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Alessandro

Il campanello trombettò, indesiderato. Infilai una matita dentro l'antologia di italiano e mi avviai alla porta d'ingresso. Oltre la testa brizzolata di mio padre intravvidi il signor Nardi allungare la mano in un saluto cortese che mio padre ricambiò debolmente, la stretta rammollita. Si spostò di lato e li fece entrare tutti, poi mi guardò roteando gli occhi al cielo.
I Nardi erano tutti vestiti di bianco e molto pallidi, come se si fossero spalmati una crema al burro in viso e tenessero ancora indosso i camici da medici. Lui era un uomo tozzo e molto basso, ma aveva uno slancio e una rapidità nei movimenti tipici di chi è abituato a coprire corsie di reparti sempre correndo. Sua moglie, invece, non sollevò lo sguardo finché non fummo in salotto: allora trovò nella sua borsa ciò che stava convulsamente cercando da tempo. Tirò fuori un fascicoletto che porse a mia madre, forse il caso clinico di un paziente disperato, perché si guardarono con quello sguardo di sottaciuto scoraggiamento che possiedono solo i medici chirurghi. Poi scossero entrambe la testa e sfoggiarono espressioni rasserenate.
<<Ma che bella casa, Barbara. Davvero. È da tempo che voglio arredare il salotto da capo, ma ho paura di farmi prendere la mano e di mettere troppi soprammobili inutili. È poco igienico, dice Franco, riempire in maniera eccessiva. Ma Betta!>> E si sporse verso il corridoio. <<Tesoro, entra. Presentati agli Altieri.>>
La figlia dei Nardi era fissa, in una radicata concentrazione, sul The Doctor di Fildes appeso alla parete. Non mi piaceva quel quadro di epoca vittoriana che la nonna aveva regalato alla mamma quando si era laureata, e che lei, con rispetto filiale, aveva affisso vicino alla porta di ingresso affinché la nonna potesse sempre avere una chiara testimonianza della sua gratitudine quando ci veniva a trovare. Quella tela offriva uno spaccato di morte che mi angustiava, che carpiva la pace della nostra casa bianca e pulita.
La ragazza, una tipa con un arruffato cespo di capelli biondi, si riscosse improvvisamente e prese a trafficare con il suo ombrello, guardandosi attorno per trovare un angolo in cui appoggiarlo.
<<Oibò!>> esclamò quando dalla ghiera caddero alcune gocce sul pavimento.
<<Lascia stare.>> Le andai incontro. <<Faccio io.>>
<<Grazie. Tu sei Sandro?>>
<<Alessandro.>>
<<Ah, già.>>
Quando l'accompagnai in salotto mi accorsi che sul retro della sua maglietta rossa erano appiccicati strani lacci incrociati con una colla per tessuti. Le scarpe a punta erano invece impreziosite da motivi floreali. Sotto sollecitazione di mia madre, gli ospiti presero posto. Notai un certo imbarazzo nel dottor Nardi che non riusciva a raggiungere un'altezza tale da posare i gomiti sulla tavola senza risultare ingombrante. Lo vidi toccare la sedia, a disagio.
C'erano sei posti a tavola: Edoardo ne era stato escluso. Avvertii un miscuglio di fiele e veleno raschiarmi la gola mentre mi sedevo accanto a mio padre, i sensi distaccati dal corpo, come se mi trovassi in un mondo sconosciuto, in un'atmosfera mutata e falsa. Trascorsi tutto il tempo ad assuefarmi all'assenza di mio fratello, che rendeva il pranzo amaro, angustiante e soffocante, e a chiedermi dove lui e la sua disabilità fossero stati nascosti, come una cianfrusaglia rotta e consunta che si spinge a fondo nel bidone dell'immondizia affinché nessuno la veda.
Alla fine chiesi mormorando a mia madre, mentre si sporgeva verso di me per passarmi l'acqua: <<Dov'è Edoardo?>>
Rispose solamente quando ebbe preso nota della distrazione dei suoi ospiti: <<In camera sua. Ha già mangiato. Però lascialo lì, non voglio che disturbi i Nardi. Lo sai che tuo fratello ha bisogno di troppe attenzioni. Mi fa sudare! Ora vogliamo stare un po' calmi io e tuo padre.>>
<<Credono che io sia figlio unico?>>
La sua indifferenza mi alitò incontro, ripugnante. Seguirono boccate di baccalà, spiedini di pesce e parole su valvole mitraliche e vene safene. Betta Nardi se ne stava in silenzio a fissare i movimenti della sua forchetta, gli occhi ridenti e il cipiglio vivace. Mio padre la interpellò.
<<Ma quel collare che hai... un po' gotico... dove lo hai preso?>>
<<Ah, già! Questo, dice? In un negozio di bigiotteria vittoriana in centro. Delizioso, vero? Oh, anche io lo penso.>>
Contraendo le labbra in una smorfia sprezzante, oramai privo di appetito, mio padre mi guardò. <<Ma quanto è vecchia quella lì! Vecchia dentro>> bofonchiò. <<Sai dove ho visto un affare così? Ai colli delle ballerine di burlesque. Involgarisce molto, non trovi, Alessandro? E poi guardale gli orecchini. Sembrano medievali... ricordano i gioielli trovati in una tomba dei longobardi... non so in quale documentario ne avevo visti di simili.>> E poi disse che i pendenti della signora Nardi appartenevano ad un modello passato di moda, che da anni non si vedeva più alla fiera di oreficeria a Vicenza. Ogni sua occhiata emanava un disprezzo che confinava con l'alterigia, e un'incredibile ondata di passione tormentante lo colse e lo sfiancò, finché non si adagiò sconfortato contro lo schienale della sedia, consapevole che il suo mondo non avrebbe mai potuto intersecarsi con quello di quei medici così poco eleganti.
L'ineluttabile arrivò poco dopo, sgorgando dalle labbra di mia madre. <<Alessandro ha la stoffa, sì... sì... Occhio acuto, mani ferme. Anche mia madre lo crede: pensate che gli ha pagato il viaggio per visitare un prestigioso college dell'Inghilterra>> fece. <<Suo padre lo fa lavorare con quelle sue cose che ha lui, ma credo che mio figlio sia più tagliato per aiutare gli altri in termini di vita, non per aiutarli ad adornarsi.>>
Il dottor Nardi intrecciò le mani sopra la tovaglia come meglio poteva. Socchiuse gli occhi, perlustrandomi con curiosa perizia. <<Cosa ti piacerebbe fare?>>
<<Lavorare in prima linea>> risposi.
<<Ah, beh. Un medico nelle zone di guerra è pur sempre un bel gesto umanitario.>>
<<Non intendevo quello...>>
<<C'è il dolce!>> mi interruppe mia madre. Si alzò ansiosamente. <<Senza burro e senza latte. Leggerissimo. Vado a prenderlo.>> E tornò lestissima sui tacchi a spillo, temendo che durante la sua breve assenza potessi continuare la mia correzione. Con paurosa sorpresa mi guardò per assicurarsi che avessi capito che avrei fatto meglio a tacere.
<<Anche Betta diventerà medico>> La signora Nardi sorrise alla figlia.
In realtà, non riuscivo a pensare a quella figuretta, poco più che infantile, costretta in un camice bianco con attrezzi chirurgici in mano. Forse anche lei stava facendo di tutto per rendersi diversa dall'archetipo di donna che i suoi genitori volevano diventasse e per costruire la propria personalità.
Rimasi molto imbarazzato dalle occhiate che tutti rivolgevano prima a me e poi a Betta Nardi: difatti, come in un gesto inevitabile, se lo sguardo si posava su di uno, poi doveva passare sull'altro. Ai loro occhi eravamo due lembi dello stesso filo diretti verso il medesimo avvenire, raggirabili e ammansibili come due animali al guinzaglio.
<<Tua madre mi ha detto che anche a te piace Leopardi e che hai una vasta raccolta delle sue opere>> disse il dottor Nardi, guardandomi dietro una fetta di ciambellone.
Mi strofinai le mani sulle gambe. <<Ho solo I Canti, a dir la verità...>>
<<Mostrali a Betta>> intervenne mia madre. <<Potete aprirvi una discussione. A lei piace quella... quella dedicata a Silvia.>>
Percorsi il corridoio diretto verso la mia camera, con l'atteggiamento di uno scolaro che si trascina affaticato verso la propria aula. La figlia dei Nardi mi seguiva a passo vivace.
<<Comunque chiamami Elisabetta. È il mio vero nome. Molto più aristocratico.>>
Approvai con falso interesse attraverso un cenno del capo.
<<Leopardi... sai perché mi piace, Sandro? Ha un virtuosismo unico nel descrivere la deformità della vita: il dolore. Ma non è quella malinconia nervosa e corrosiva, bensì è elegante e ideale. Anche a me piacerebbe soffrire così come fa lui. Spezzare... spezzare la tradizionale felicità. Sono affascinanti le inquietudini dell'uomo, deh!>>
Improvvisamente sentii di aver capito perché era stata attratta come una falena dal quel quadro lugubre appeso alla parete, e lo aveva ammirato con sollecita deferenza.
<<E tu che ne pensi?>>
In quella aprii la porta della mia camera e ne vidi sconvolto l'ordine tradizionale. Si riusciva a scorgere il balconcino che dava sul giardino: sopra la finestra non pendeva più la bandiera con lo stemma dei berretti verdi americani. E neppure la bandiera italiana. Il mio fioretto non c'era, e il chiodo sul quale era appeso era stato divelto anch'esso. La felpa dell'esercito che sempre avvolgeva lo schienale della poltroncina alla scrivania era sparita, e con lei anche il cinturone militare. Del post di John Miller attaccato sopra al letto rimaneva soltanto un angoletto bianco.
Fui subito alla libreria e afferrai I Canti. Li allungai ad Elisabetta Nardi.
<<Penso che dovresti leggerli da sola.>>
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Maddalena

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