Capitolo 56

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Alessandro

Non ci salutammo, io e mio padre. Ci limitammo a guardarci a lungo, muti, con un contatto che esisteva perché esistevano gli occhi, puntati gli uni contro gli altri, ma i nostri sguardi erano sordi e distanti. Un suo movimento impercettibile del capo verso il basso mi fece intendere che si aspettava qualcosa da me, forse un grande successo. Accennai alla porta, ma lui rimase seduto dov'era, e più guardavo quella porta e più lui guardava me e con le mani intrecciate davanti al viso sembrava chiedermi che cosa stessi facendo.
Girardi era il mio istruttore. Mi vide e mi spinse verso il bordo del campo. Coprii dieci giri correndo. Non fu soddisfatto. Guardò l'orologio allacciato al polso, increspò le labbra e scosse la testa.
<<Non mi piace>> dissentì. <<Due minuti e ventiquattro. Fanne altri due.>>
Li feci. Disse che non ero nelle mie forze, ma che mi ci avrebbe messo ben presto lui. Era molto severo, ma, più che ogni altra cosa, contava sul terrore che i suoi allievi avevano della sua severità. In realtà, però, Girardi sapeva come incoraggiarci, e proprio perché lo sapeva mi ordinò di salire e scendere le scale che portavano alla tribuna, e quando non gli piaceva un movimento soffiava forte nel suo fischietto fino a perdere il fiato. Gli si gonfiavano le guance, che parevano quelle di un trombettista.
Trasalii ad ogni suo richiamo squillante. Mi sentii ben presto troppo esposto, sbilanciato, fuori dal centro, sporto aldilà del solito paravento di assoluto individualismo con cui ci allenavamo, e ora tutti gli altri, lì dentro, mi rivolgevano uno sguardo curioso. Ero affannato e tremavo di timore e di eccitazione.
Girardi mi guardava ancora. Sembrava molto deluso. Poi distolse lo sguardo e mi escluse dalla sua attenzione. Dall'ultimo gradino della tribuna da cui lo osservavo e da cui non avevo il coraggio di scendere, il suo cranio sembrava una ciotola bianca e gli occhi scuri sparivano dietro le ossa dure e massicce degli zigomi che si alzavano e sembravano ingigantirsi quando si arrabbiava, e tendeva tutto il viso e si gonfiava. Anche il petto tondo si sollevava, e la maglietta bianca chiazzata di sudore si alzava, lasciando scoperto il basso ventre irsuto e il principio di un tatuaggio che si camuffava tra le pieghe del grasso. In effetti, Girardi si era imbruttito e si era sformato parecchio, e le grandi coppe di scherma rimanevano solo un ricordo celebrativo di ciò che con il suo talento era stato capace di fare e che mai più avrebbe fatto.
Ridiscesi i gradini e feci qualche flessione in un angolo. Guardai la moquette e mi concentrai sui piccoli nugoli di polvere mentre mi alzavo e mi abbassavo. Con la coda dell'occhio, vidi Girardi avvicinarsi e allungare la sua ombra tozza sopra di me. Mi mise un piede sulla schiena. Continuai a sollevarmi. Poi esercitò più pressione e mi schiacciò a terra.
<<Non mi piaci oggi>> mi disse. Aveva le braccia congiunte dietro la schiena.
<<Mi dispiace.>>
<<Non potrai dire mi dispiace al tuo capitano, un giorno. A meno che non sia tu il capitano. Ma anche in quel caso non potrai dire mi dispiace al tuo superiore.>>
Non risposi.
<<Parla.>>
<<Non accadrà. Non voglio essere provocato su quel tema.>>
<<Ma a me piace provocarti. Chiunque, quando provocato, fa uscire la scimmia dentro di sé.>>
La scimmia era un impulso primitivo covato nei meandri del cervello, un duende violento, un sacro, benevolo e piccolo demone istintivo che si manifesta per incentivare l'uomo a reagire ad accuse, difficoltà, provocazioni. Io lo avevo trovato poche volte in me, e sapevo che anche quando lo avevo conosciuto non si era mai espresso con tutta quella forza distruttrice con cui mi era stato descritto, ma temevo prima o poi potesse risorgere molto infervorato, e temevo quel genere di novità che non potevo controllare. Quindi stavo zitto ed evitavo di pensarvi.
Mi sollevai con forza e mi divincolai dal suo giogo. Mi misi in ginocchio. Quando parlò di nuovo, Giraldi aveva una voce diversa:
<<Voglio che tu sia sempre il migliore perché sei il migliore. Non hai le carte per esserlo. Quello implica una possibilità. Tu sei davvero il mio miglior fiorettista. È una buona combinazione nel tuo patrimonio genetico che ti rende tale. E due belle braccia forti. E non devo farmi sentire quando lo dico, o mi friggono le palle qua dentro.>>
<<C'è mio padre.>>
Giraldi guardò su e lo feci anche io. Socchiuse gli occhi come se non vedesse chiaramente, poi alzò un braccio e lo agitò.
<<Non lo salutare, ti prego.>>
<<Altrimenti che cosa succede?>>
<<Altrimenti ci guarda e porta l'attenzione su di me.>>
<<Non conosce nessuno qui dentro. Ma c'è suo figlio ad allenarsi. Davvero non penserai che si metta a guardare le cicche attaccate dietro i sedili delle tribune.>>
Poi mi prese per il bavero del gilet e mi sollevò di forza. Era molto più basso di me, quindi non mi sentii trascinare verso l'alto, ma percepii la consistenza ossuta delle sue nocche contro il mento.
<<L'uomo è capace di controllare i propri pensieri?>> mi chiese.
Aggrottai la fronte. Annuii.
<<Da dove vengono le emozioni?>>
<<Dai pensieri, credo.>>
<<Dunque l'uomo è in grado di controllare le proprie emozioni?>> Ancora una volta annuii. <<Bene, allora anche tu>> aggiunse. Prendemmo i fioretti. Mi calcai la visiera sul capo e mi portai verso il lungo tappetino. Piegai le gambe e allungai il braccio.
<<Stai nel qui ed ora. Non hai un'altra possibilità di vincere>> proseguì. Avanzò rapido con una stoccata, sorprendendomi indifeso. <<Il tuo campionato più grande è contro di lui.>> Accennò verso mio padre. <<Visualizzati vincente.>>
<<Sono anni che non viene né ad una mia gara né ad un mio allenamento.>>
<<Allora dagli il bentornato.>> Mi puntò l'estremità del fioretto sulla fronte. <<Non sono mai i fatti a farci vivere le emozioni negative, ma le opinioni che ci facciamo su di loro. Non è lui che ti indebolisce, ma come tu credi di poter reagire davanti a lui.>>
<<Non so cosa voglia da me, perché sia venuto.>> Scattai in avanti. Lo colpii, poi tornai alla mia postazione arretrando. <<Vorrà parlarmi.>>
<<Pensarlo ora ti farà solamente divorare dall'ansia. Sai cos'è l'ansia? Mi sai dare una definizione?>>
Lo guardai. Scossi la testa.
<<È un pensiero negativo nei confronti del futuro. Generalmente alimentato da negative esperienze passate. Quindi permetterle di entrare nella tua vita è un po' come andare nel passato, prendere un sacco di merda e portarselo nel presente>> disse. <<Non ti servirà.>>
Risi. Passò tra di noi un silenzioso consenso e una muta comprensione reciproca. Non parlammo per qualche tempo, e continuammo a muoverci avanti e indietro, e ad ogni affondo sentivo il morso feroce dell'adrenalina attanagliarmi le vene. Sentivo il sangue spostarsi dentro di me senza pace, salire sul viso e poi ridiscendere verso le membra, e fermarsi in un punto e gonfiarmi la pelle, come una macchina impazzita che percorre dieci volte la stessa autostrada accelerando e poi rallentando, cambiando continuamente corsia.
<<Siamo strani noi atleti>> riprese Girardi. <<Abbiamo sempre quel fottuto grillo parlante che deve rimproverarci e svalutarci quando qualcosa non sembra andare. Poi, però, quando vinciamo, non parla mai per gratificarci. Rimane zitto.>>
Fuori era già notte. I led proiettavano sul pavimento una luminosità fioca e lattea che stancava gli occhi. Gli ultimi schermidori lasciarono il campo. Rimanemmo soli. Io, Girardi e mio padre. La sua presenza mi risuonava nelle orecchie. Avevo un verme nella testa che voleva costringermi a girare il viso dalla sua parte, ma con gioia beffarda non gli permisi di avere effetto su di me. Era una televisione spenta, un giornalista muto.
Una volta terminato l'allenamento, trovai mio padre ad aspettarmi in piedi alla porta d'uscita, davanti ad un parcheggio vuoto in cui le strisce bianche si scolorivano sull'asfalto, e con buche e avvalli ricolmi d'acqua e fango. Girava in bocca una caramella. Quando mi avvicinai scoprii che era al gusto di menta. Da quando aveva smesso di fumare, un anno prima, continuava a succhiare caramelle e gomme da masticare, e anche se tutto quell'ingoiare sapori e mischiarne altri gli avrebbe forato lo stomaco, i suoi polmoni sarebbero rimasti integri, e questo mia madre glielo ripeteva sempre con l'occhio preventivo e allarmato di un medico.
<<Eccoti>> mi disse appena mi vide. Io non risposi. Mi misi al suo fianco e ci incamminammo verso casa. Guardò il borsone da palestra che continuavo a sistemarmi sopra la spalla e fece il gesto di prendermelo. <<Vuoi?>>
<<No. Riesco a portarlo da solo.>>
<<Sei stanco?>>
<<No>> mentii.
<<Siamo a piedi.>>
<<Bene>> mentii ancora.
Passammo sotto le luci fulve dei lampioni e respirammo i vapori delle strade che si sollevavano, e a volte odoravano di erba e acqua, altre volte di sporco e gas. Costeggiammo i cancelli delle case e di tanto in tanto usciva un cane di grande stazza dall'ombra e all'improvviso si metteva ad abbaiare o a ringhiare, e mi sforzai per non considerarlo un presagio.
<<Ti ho visto oggi>> mi disse.
<<Perché venire, altrimenti?>>
<<Volevo vedere come si allena mio figlio. Lo fai con costanza e impegno, ma non ci vengo mai.>>
<<Questo dice molto.>>
<<Non ho tempo. Lavoro sempre. Sono un animale rinchiuso in gabbia, a volte.>>
Pensai che anche io lo ero, e non a volte, ma sempre. Decisi però di tacere.
<<Sai cosa penso della scherma>> aggiunse.
<<Che è facile che un giorno il rumore delle stoccate diventi quello delle pallottole>> recitai.
<<E comprendi che cosa voglio dire?>>
Scrollai le spalle.
<<Avrei preferito giocassi a calcio, o facessi qualunque altro gioco di squadra>> continuò. <<Quelli ti insegnano il valore della collaborazione. Gli sport individuali ti abituano a vedere solo te stesso. Ti rendono competitivo, Alessandro. E tu lo sei.>>
<<Mi piace competere quando so che posso vincere>> risposi.
Nel silenzio con il quale mi estraniai e isolai da lui, da Roma e dalle auto che passavano, e dalla notte e dalle mie gambe, ammisi, tacendo, che aveva ragione. Avevo fatto della mia vita un'interminabile gara, e il punto di partenza era lontano e quello di arrivo più lontano ancora, e in tutto quel tempo che restava per giungere al gradino più alto del podio chiunque avrebbe potuto surclassarmi e temevo, con una grande umanità che lasciavo mi giustificasse e consolasse, la depressione della sconfitta. O, più di essa, l'aridità e la disistima dello sconfitto. Perché ero sempre stato allenato ad essere il migliore, e nulla mi mancava. Grandi risultati scolastici, vittorie sportive, ricchezza, una ragazza che mi amava, degli amici che amavo e, per la prima volta, ignorando lo sguardo obliquo e raccomandativo di un'eccessiva e falsa umiltà che temeva la boria, ammisi anche di avere il grande e anelato germe della gioventù: la bellezza. Sapevo di essere bello. Allo specchio mi piaceva la mia immagine, e mi piacevano i miei ricci biondi e gli occhi neri e le linee del viso e del naso e della bocca, e i tratti di uomo come le vene pronunciate ai lati del collo, le spalle diritte, un bel petto, una grande statura e un fisico atletico. Tuttavia, non mi ammiravo. Sarebbe stato assai presuntuoso. Lasciavo che lo facessero gli altri. Ma non mi bastava e non mi sarebbe mai bastato. Sarei arrivato ad un punto, forse ai venticinque o ai trent'anni, in cui l'aereo della vita si avvia verso l'atterraggio, e la bellezza diventa come una nuvola che attraversi e che poi ti lasci distante. Sarei cambiato e sarei invecchiato. Essere il migliore mi permetteva di tenermi a galla. Dentro casa, rientrando da scuola, passavo inosservato. Non c'era bisogno di fare domande: quel compito sarebbe andato sicuramente bene, una valutazione discreta sarebbe stata solamente un'eccezione, i professori avrebbero stimato il mio nome anche fra dieci anni e chiunque, fra i compagni, mi avrebbe ricordato. E senza quelle certezze, su cui offrivo anche agli altri la certezza di potersi fidare di me, sarei stato una bambola di legno, inerte e gelida.
Intanto, camminando, eravamo arrivati davanti al cancello di casa.
<<Io lo so che non posso piegarti>> disse. <<Ti vedo. L'ho capito da questa tua inflessibile freddezza nelle risposte.>>
Lo guardai perplesso, gli occhi sbarrati.
<<Sei freddo, Alessandro. Emotivamente distaccato. Apatico, quasi. Sei determinato nei tuoi obiettivi, ma non hai altro.>>
<<Ti ho aggredito nella corsia di un ospedale...>>
<<Avrei voluto ti guardassi in quel momento. Non era un'irruzione emotiva. I tuoi occhi non lasciavano filtrare nulla. Avevi una forza spietata, ma una compostezza frigida che mi ha spaventato. Come se avessi calcolato tutto.>>
Mi fissai le punte delle scarpe. Sentivo un punto preciso, al centro del petto, raffreddarsi. Rialzai lo sguardo solo quando mi disse:
<<Provi qualcosa? Hai mai avuto dei sentimenti per una ragazza?>>
<<Mi resta difficile provarli>> risposi. <<Ma li ho.>>
<<Vivrai male, così. Permettiti di vivere, di gioire e di soffrire.>> Posò su di me uno sguardo compassionevole che mi infastidì. <<Dove sta la difficoltà?>>
Volle lasciarmi a riflettere su questo interrogativo. Entrò in casa, e io rimasi in piedi, nel pianerottolo, accanto all'amaca che il vento faceva dondolare. Le luci delle case vicine si spegnevano poco a poco. Rimaneva il bagliore circonfuso di uno spicchio di luna.
La verità è che è sempre molto facile amare. Ma è altresì semplice crollare. E i migliori non devono crollare mai. 
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Scusate davvero la settimana di ritardo, farò in modo non accada più. Questo capitolo mi ha impegnato più del previsto. Spero comunque di essere riuscita a darvi un'immagine nuova e inaspettata di Alessandro. Un suo dialogo interno così ampio non lo avevo mai descritto. Che ne pensate? Ha ragione suo padre o ci sono altre motivazioni?
Grazie mille a tutti!

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