Capitolo 50

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Riccardo

Fu diverso, perché presi la metro. Decisi così perché preferivo farmi guidare verso la distruzione. In fondo, non era una scelta veramente mia. Era stata dettata da una sorta di necessità generica universalmente vera, secondo cui è giusto soffrire ancora e sovrapporre uno stato d'animo all'altro, così non si capisce cosa provi per l'uno e per l'altra cosa, e in questa confusione ne viene fuori una sofferenza che sembra non avere cause né risposte, che è sempre migliore del saper tutto.
Lo credevo fermamente, ma nessuno dei miei amici la pensava come me, perché loro erano assai più ragionevoli di me, e io sapevo di non essere ragionevole, ma credevo fosse un bene non essere lucido, quindi non dissi nulla e partii.
Scesi alla fermata davanti al Colosseo. Era sera, ma c'era ancora tanta gente, e i finti soldati romani davanti ai cancelli, e turisti che sorridevano e scattavano foto, e molti tedeschi e giapponesi che indicavano, e io che pensavo che sbagliavano a pensare che Roma iniziava e finiva al Colosseo, e se credevano così avrebbero fatto un gran favore a tutti tornando a casa loro. Roma era tante strade battute con molti stati d'animo, felici e tristi, ma nelle grandi città questo non si coglie mai, se non belle statue e monumenti, ma nessuno, se non chi vive una città Roma, potrebbe mai pensare a quanto sia gradevole questa o quella caffetteria, o quanta bella musica ci sia in quel locale, quel supermercato ha prezzi troppo alti, e poi i ricordi di un giardino e di una piazza, gli autobus persi e rincorsi e i gradini della mia scuola.
Pensando a tutto questo continuai a camminare a testa bassa. Mi pesava guardare le mie scarpe nere, lucide ed eleganti. Non ne avevo mai avute di così belle, e chissà se ne avrei portate un paio simili al mio matrimonio, e chissà se ci sarebbe stato un matrimonio. Non erano neppure mie, ma di mio padre. Un po' mi andavano strette, come mi andava stretto tutto nella mia vita, e ora tutto quello che era suo finiva nelle mie mani e non potevo fare altro che afferrare e mettere tutto in tasca.
L'Altare della Patria era giallo nel tramonto. Era stato cotto dai primi veri soli della primavera, e aveva perso un po' del suo biancore.
Attesi, mentre gli autobus della sera giravano lentamente attorno alla rotonda, come muli o vecchi carri carichi e appesantiti. Nel giardino al centro della strada c'era un piccolo passaggio e io aspettavo proprio lì e guardavo i fiori. Non c'era nessuno, ma qualcuno era passato, perché un mazzo di fiori bianchi e gialli era buttato a terra ed era stato calpestato. Erano dei bei fiori. Anche a mio padre avevano regalato dei fiori bianchi e gialli sopra la sua bara. Forse sarebbe stato più contento se qualcuno avesse stappato una bottiglia di vino davanti alla sua salma.
Stritolai i petali e gli steli sotto le suole. Avevo una grande voglia di distruggerli. Ci piroettai sopra, girando su me stesso. Mi accorsi di avere i lacci delle scarpe sciolti, ma non mi piegai ad allacciarli.
Presi il cellulare.
<<Dove sei?>>
<<Dietro Piazza Venezia. Se vuoi, raggiungimi lì.>>
<<Sono già in Piazza Venezia.>>
<<Io non ti vedo.>> Thomas sospirò.
<<Come non mi vedi?>>
<<Ti dico che non ti vedo.>>
<<Sono davanti. Proprio qui.>>
<<Io ti ho detto che sono dietro. Dietro l'Altare. Lì ci vedrebbero.>>
<<Troppi turisti ancora. Non farebbero caso a noi>> dissi.
<<Vieni dietro.>>
Feci come Thomas mi disse. Lo trovai sotto un pino marittimo, appoggiato ad una ringhiera che si sporgeva verso alcuni scavi archeologici. Pensai che era davvero brutto ritrovare solo polvere di qualcosa che era stato tanto grande. Non si capiva che cosa fossero state quelle rocce, e tutti quegli oggetti macerati erano austeri e sembravano non avere forma.
<<Sei proprio una testa di cazzo>> dissi. <<Non la vedi la cabina della sorveglianza lì in fondo?>>
<<Dove?>>
<<Davanti al Museo del Risorgimento. Ci sono le telecamere.>>
Thomas diede una sbirciata corrugando gli angoli degli occhi. Poi scrollò le spalle e tutti i suoi lunghi rasta si mossero come bisce scure. Sembrava un personaggio fantastico. Somigliava a Medusa.
<<Ah>> fece. <<Non è mai successo niente. Ho sempre dato appuntamento a tutti qua.>>
<<Mi hai fatto fare parecchia strada.>>
<<Almeno hai visto Via dei Fori Imperiali. Altrimenti ci passano solamente gli appassionati.>>
<<Allora?>>
<<Cosa?>>
<<Dammi la roba>> bisbigliai mentre mi guardavo attorno.
<<Stai tranquillo, ti dico. Gli sbirri guardano altre cose. Che importa se spaccio e tu prendi? Non vendiamo mica ai tursti. Roma si arricchisce comunque.>> Prese una sigaretta da un borsello che teneva allacciato alla vita e se l'accese.
Mi irritava quel suo temporeggiare. Non volevo conversare, volevo sentire la mia voce il meno possibile e non volevo sentire neppure quella degli altri. Ogni suono mi colpiva come una stonatura. Mi allentai il nodo della cravatta e mi sbottonai un poco la camicia.
<<Tieni.>> Thomas mi allungò un libro. <<A pagina duecentotre.>>
Lessi il titolo. Anna Karenina.
<<Nessuno crederebbe che io possa leggere una cosa del genere>> osservai.
<<Nessuno ti fermerebbe per chiederti che libro hai in mano.>>
<<È in polvere>> dedussi.
<<Sì.>>
<<Bene.>>
<<È coca.>>
<<Non hai anche qualcosa di più forte?>> Vidi che Thomas mi guardava ammiccando interrogativo. Aggiunsi: <<Potrebbe servirmi.>>
<<Per quando ti serve?>>
<<Tanto questa roba non so quando la prendo e se la prendo. Se mi serve, certo. In caso contrario, la butto nel cesso.>>
<<Mi paghi comunque però.>>
Annuii.
<<Ho un po' d'eroina>> sussurrò. <<Il demonio di tutte le droghe.>>
Mi sentii pervadere da un brivido di paura ed eccitazione. Avevo la vaga tentazione di lasciarmi irretire da quel nuovo mondo.
<<Che effetti dà?>>
<<La coca ti fa spiccare. Ti rende parecchio euforico. Con il demonio invece sei un po' più tranquillo. E poi è un po' come scopare con una bella donna.>> Emise un ghigno beffardo.
<<Che vuoi dire?>>
<<Appena la prendi non è lei che ti fotte, ma tu che fotti lei, non so se mi spiego.>>
Non avevo veramente capito, ma volevo cavarmi fuori da quel groviglio di proposte e contrattazioni e andare a casa.
<<Va bene. Dammene un po' e finiamo questa storia.>>
<<Ne ho pochissima dietro.>>
<<Non importa. Tu dammi.>>
Ora tirò fuori un altro libro. <<L'avevo promessa ad un'altra persona, ma se tu mi paghi bene...>>
<<Dietro non ho un becco di quattrino.>>
<<Allora perché mi chiedi di venderti le cose?>>
Mi slacciai l'orologio che avevo al polso e glielo lasciai sul palmo della mano. <<Vale più di quanto mi chiederesti. E poi a me non serve.>>
Mi passò il libro. Era Madame Bovary. Mi venne molto da ridere, ma se avessi riso mi avrebbe sommerso anche una grande voglia di piangere.
<<So che non leggeresti neppure questo.>>
<<Ti sbagli>> dissi.
Richiuse il suo borsello e si aggiustò la cinghia attorno al bacino nel gesto definitivo di chi non ha più nulla da dire o fare.
<<Serve anche alla tua ragazza quella roba?>>
<<A lei non occorre proprio nulla. Lasciala stare.>>
Lui annuì. <<Sei molto elegante oggi.>>
<<Vengo dal funerale di mio padre.>>
<<Oh, bello.>>
A quel punto lo guardai meglio in viso e capii che forse era un po' drogato. Sembrava stare bene però, anche se non sapeva che cosa diceva.
<<Ora vattene>> dissi, ma fui io il primo ad imboccare Via dei Fori Imperiali e a sbattere il mio viso freddo e morto contro la luce calda del tramonto. Stringevo Madame Bovary tra le mani e ricordai la bella donna che mi suggeriva.
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La notte mi scavava rughe sulla schiena e mi sentivo vecchio. Avevo le spalle gonfie e un fardello pesante da portare. In quel momento capii che la vecchiaia dell'anima era ciò che mio padre mi aveva lasciato. Me la stava portando come un fiore sulla tomba della mia vita. La sua assenza pulsava sopra di me come un sole pallido dietro una tenda, e aspirava come una sanguisuga la gioventù dalle mie vene e mi guardava e sogghignava e mi ripeteva che sì, hai visto che ti sarebbe importato alla fine?
Tornai a casa. Aleggiava il silenzio. La cucina era battuta dalla luce obliqua dei lampioni della strada. Le luci erano spente e le stanze si rinfrescavano al buio. Qualcuno aveva aperto le finestre. Vidi mia madre con il viso sporto dalla finestra aperta. Mi pareva quasi contenta, o se non era contenta, la sua espressione non lasciava trapelare alcuna emozione, eppure qualcosa mi suggerì che era felice e leggera. Era stucchevole e triste spingersi in simili congetture, quando eravamo tutti ancora vestiti di nero e puzzavamo di fiori e salma, ma la capii.
Non mi mancava mio padre. Mi mancava la sua sagoma sul divano, il suo mazzo di chiavi, -che erano due, una quella di casa e l'altra quella dell'officina, perché per lui non dava pena avere solo l'essenziale-, che poi sarebbe stato meglio se non fosse mai entrato da quella porta; e mi mancava anche la sua mano stampata sulla vetrina dei liquori, e chissà se coprendola con la mia avrei confermato il nostro codice genetico. Presi la bottiglia di Averna. Non mi mancava nelle emozioni, ma negli occhi, come un quadro che è sempre stato così e a cui poi viene strappato un dettaglio, che anche se è piccolo fa la differenza.
Linda era seduta sul divano. La sua schiena non toccava la spalliera. Sedeva proprio sul bordo e guardava una busta bianca che aveva tra le mani. Quando mi vide rientrare, si allungò e la lanciò sul tavolo.
<<Io non me ne faccio niente di questi soldi. A voi forse servono. Questa casa è uno sozzume. Mi dà il voltastomaco. Lo avete fatto marcire qua dentro papà.>>
La ignorai e continuai a sorseggiare il mio Averna.
<<Siamo solo noi tre ora>> disse mia madre.
<<Dimenticatevene>> rispose Linda. <<Solo voi due. Io domani me ne riparto. Anzi, stasera. Portami alla stazione.>> Mi guardò.
<<Dove vai?>>
<<Me ne ritorno su. A fare i miei soldi. Tu non te li fai i tuoi soldi, Riccardo?>>
<<Potrei anche io vendermi al mercato della prostituzione. Me ne farei tanti>> dissi.
<<Come ti odio.>>
<<Sappiamo tutti che cosa fai.>>
<<Tu non te li fai i tuoi soldi?>>
<<Dimmelo tu come.>>
<<Hai l'officina di papà ora. Non ti ha insegnato qualcosa? Ti portava spesso con lui. Oh, Dio, quante cose ti ha insegnato! E poi lo hai ucciso.>>
<<Parla come ti pare.>>
<<Lo hai ucciso...>> Tutta la sua faccia era butterata di un teatrale stordimento. Aveva gli occhi stralunati. Pensai che era vero che la gente che fa teatro poi non smette mai di recitare o di alterare la realtà.
<<Ho difeso mamma.>>
<<Lo hai ucciso per difendere l'amica tua.>> Si alzò, mi strappò la bottiglia di liquore dalle mani, la scaraventò a terra e mi spinse contro la parete. Nostra madre si voltò con un balzo spaventato. Ci disse che eravamo i suoi figli e non dovevamo odiarci. Le risposi che non ci odiavamo. Parve credermi.
<<Non ci sei mai stata quando papà metteva le mani addosso a mamma, quando tornava a casa ubriaco e faceva il dittatore. Tornatene su e continua a fare la tua bella vita da cieca.>>
Mi lanciò uno schiaffo, e anche se si aspettava che reagissi, non lo feci, un po' per non soddisfare la sua ricerca di conferma della mia presunta violenza, un po' perché le donne non riuscivano veramente a provocarmi, un po' perché era mia sorella.
L'Averna si allargò a terra come una grande chiazza di sangue.
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Vi ricordate la visione che aveva avuto Maddalena tempo fa? Ecco.

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