Alessandro
Avevo i capelli spolverati di polline. Scossi la testa e un batuffolo bianco mi finì tra le dita. Lo scansai.
Seduti sull'erba ancora umida del parco di Villa Borghese, giocavamo a carte. Non lo facevamo quasi mai, avevamo abitudini più venefiche, ma a volte, se in mezzo agli altri avevamo un aspetto straordinariamente giovanile, poteva capitare che diventare per un giorno accostumati a quel mondo apparentemente vecchio e lontano ci facesse apparire strani, ed era bello vedere le facce di chi andava e veniva tendersi confuse davanti a noi. Avevamo anche i duri accenti dei vecchi giocatori, ma nessuno di noi aveva più di diciannove anni.
Riccardo era di mano. Mi guardò un attimo. Carla si accertò che non mi suggerisse nulla alternando lo sguardo da me a lui. Alla fine calò il fante di denari.
<<Busso>> disse.
<<Chi è che bussa?>> Emanuele si guardò attorno.
<<Lasciatelo stare>> disse Riccardo.
Non avevo nulla, ad eccezione del re. Il mio amico mi guardò deluso. Maddalena vinse la presa. Lei e Carla si sorrisero soddisfatte.
Emanuele si posizionò dietro a Riccardo, allungò il collo e sbirciò le sue carte. Dietro gli occhiali dardeggiò un'occhiata perplessa. <<Per quello che credo di aver capito, sbagli a giocare.>> Tamburellò sulla spalla di Riccardo. <<Perché lanci una carta così alta? Butta giù il l'asso o il due che sono basse.>>
<<E invece non hai capito proprio nulla.>> Riccardo parve indolente. <<Cristo Santo, Manfredi, sta' zitto. Ora sanno che cosa ho in mano.>>
Carla sogghignò e chinò il capo. Sfilò una carta dal suo mazzo molto lentamente, e la calò a terra come se fosse una strega e quello fosse l'ingrediente essenziale per la sua pentola di malefici. Era il tre. <<Dammi l'asso, bastardo.>> Ma Riccardo le diede il due e si giustificò dicendo che sapeva fare bene i conti.
<<Ribusso>> disse Maddalena. Aveva una voce dolce e velata. La guardai mentre si mordicchiava il labbro e tratteneva un risolino di soddisfazione.
<<Ma chi è che bussa ancora? Non c'è neppure una porta qui! Siamo all'aperto!>> esclamò Emanuele.
Lo ignorammo. Poi si mise dietro di me.
<<Che carte ha Altieri?>> gli chiese Riccardo.
<<È pieno di cavalli. Da buon cavaliere...>>
<<Davvero il tuo gioco fa così schifo?>>
Feci spallucce.
<<Merda, questa la perdiamo. Siamo sull'onda del disfattismo.>> Mentre lo diceva, Riccardo notò con la coda dell'occhio Carla mimare qualcosa a Maddalena a fior di labbra. <<Non si bara. Mute dovete stare.>>
Vinsero e lanciammo le carte sull'erba. Appallottolammo il foglio dove avevamo segnato i punti, e Riccardo lo usò per fare il giocoliere. Ci mettemmo seduti in cerchio contro un albero, con le gambe distese verso il verde. Il cielo si era offuscato intorno a mezzogiorno, ma ora la nebbia si stava dissipando, e quel color piombo veniva scansato dall'arancio tenue della sera. Erano rari i passanti lungo la strada del Galoppatoio. Non vedemmo nessuno per molto tempo, ad eccezione di un paio di corridori con lunghe calze bianche e tute sgargianti.
<<Avete fame?>> chiese Maddalena.
<<No.>>
<<È avanzato qualcosa dal pranzo.>>
<<Cosa?>>
<<Cioccolata. Biscotti. Frutta secca.>>
<<Mangia tu, se ti va>> dissi.
Riccardo annuì. <<Vogliamo vederti grassa. Come le donne di Botero.>>
Maddalena rise, di quelle risate piccole che sfociano poi in un lungo sospiro, mentre apriva il cestino di vimini del pic-nic e infilava una mano dentro la scatola di cioccolatini. Vidi i movimenti palpitanti del suo petto. Era un po' piatto e acerbo. Ma mi piaceva alle volte quel corpo da bambina. Sapevo che sarebbe rimasta sempre così, e che quel petto non sarebbe più cresciuto, a meno che non avesse avuto figli, ma a questo non volevo pensare. Pensai piuttosto al fatto che l'avrei trovata sempre uguale, quando fossi ritornato. Magari si sarebbe tagliata i capelli. Le sarebbero stati bene corti. Ma le piaceva girarseli su una spalla e a volte mordicchiare le punte sbiadite.
<<Il cioccolato rende felici. Mangiatelo anche voi. Parola di Botero. Non mi piacereste con i visi munti e deperiti di Munch.>> Ci allungò la scatola.
<<E così hai conosciuto l'uomo di tua madre>> biascicò Carla masticando. Poi si passò la lingua sopra i denti, ma gli incisivi le rimasero sporchi.
<<Non l'ho conosciuto>> rispose Riccardo.
<<Perché?>>
<<Perché l'ho già conosciuto.>>
Io e Maddalena ci scambiammo una lunga occhiata. Ricordavamo molto bene com'era stato pericoloso quel gioco d'affronti, come era stato difficile tenerlo, come aveva le braccia forti e come le avesse ancor più forti con la rudezza mascolina della rabbia. Era diventato livido e cattivo, come una belva che ha fame e sete e non viene sfamata da molto tempo, ma, come una belva, era scusabile e perdonabile. Poi si era dissetato della calma che aveva succeduto allo sfogo, e in quella calma aveva dimenticato. La furia fa vedere tutto in un secondo, ma non si ricorda mai nulla dopo.
<<Potreste essere una famiglia>> azzardai.
Riccardo mi lanciò la palla di carta. <<Tu stai fuori come un balcone. Credi davvero che la morte di mio padre mi abbia sensibilizzato? Certo che non mi ha lasciato indifferente. Ma non inizio ora a credere all'amore e a quelle stronzate simili, come la casa insieme e le false cene di famiglia e la condivisione degli stipendi. Mia madre può fare quello che vuole, scopare con chi vuole, finché rispetta la memoria del nostro tetto, anche se è stato un brutto tetto quello sotto cui abbiamo vissuto, però sai, sputare sempre ovunque ci sia stata della sofferenza non è sempre buono. Non so cos'è buono, so solo che non credo di voler essere adottato.>>
Rimanemmo in silenzio.
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I cinque nomi di Roma
Fiction généraleLa storia tratteggia le vite di cinque amici che vivono a Roma, un sottofondo pulsante e onnipresente, che annebbia agli occhi altrui le personalità di Maddalena, adolescente sensitiva dotata di poteri di chiaroveggenza, innamorata del bell'Alessand...