Il volo treminò. Dopo essere scesa dall'aereo e aver recuperato la mia valigia, andai in cerca di mio fratello Carter. Iniziai a gironzolare per l'aeroporto incantandomi sulle vetrate che permettevano ai raggi del sole di entrare e vagare tra i passeggeri in fase di arrivo o di partenza. Avevo sempre amato gli aereoporti, quei luoghi colmi di gente che va, di gente che viene. Molto spesso, prima di partire per una qualsiasi meta, mi fermavo e guardavo le persone che gironzolavano. Per ognuna cercavo poi di inventarmi la storia della loro vita e il motivo per cui erano lì. Ok, lo so, è una cosa un po' da pazzi ma la mia immaginazione non aveva mai un limite e molto spesso mi ritrovavo a immaginare cose senza senso. Ritornai a puntare gli occhi in giro e fu in quel momento che adocchiai mio fratello. Anche lui stava guardando in giro e quando puntò i suoi occhi nei miei sorridemmo entrambi. Corsi verso di lui e lo abbracciai con tutta la forza che avevo. Avevamo un rapporto molto strano, noi due. Carter era un ragazzo che la maggior parte delle volte odiavo, mi faceva saltare nervi e molte volte l'unica cosa che volevo era andarmene di casa sbattendogli la porta sul naso ma... hey, era pur sempre mio fratello! Gli volevo un bene dell'anima e mi sarei buttata nelle fiamme dell'inferno per lui. Carter mi prese la valigia, portandola fino alla macchina e la mise nel baule, insieme alla chitarra. Arrivammo in poco tempo a casa e, fatti due passi nel cortile, i miei genitori mi corsero incontro. <Brooke, tesoro!> esclamò mia mamma abbracciandomi. Dopo aver salutato anche il mio papà iniziai a gironzolare per quella casa che non vedevo ormai da tempo. Il salotto era caratterizzato da quel color crema alle pareti che mi ricordava la mia infanzia, al centro della stanza campeggiava un tavolino di vetro su cui erano poggiate varie candele. Tre divani guardavano verso il tavolino e, dalla parte opposta, c'era il camino con il televisore. La cucina era diventata un po' più moderna: avevano fatto un buco nel muro che, dal lavabo guardava verso l'ingresso. Salii al piano di sopra e mi feci un giro nelle camere: quelle degli ospiti, gli uffici dei miei ma quelle non mi importavano molto: ciò che mi mancava era la mia camera. Ci entrai. Il sole stava ormai per tramontare e si vedeva, dalla vetrata, il rossore del cielo che mi faceva rimanere incantata ogni volta. Respirai profondamente. Un sacco di ricordi mi vennero in mente: quando mi provavo tutti i vestiti della cabina armadio mettendo in scena una strampalata sfilata di moda, quando facevo concerti privati ai miei pupazzi di quando ero piccola e anche quando tentavo a fare gli acuti di Ariana Grande e il giorno dopo andavo a scuola senza voce. Trattenni una piccola risata in ricordo di quel giorno. Tutti mi chiedevano "ma che hai fatto?" "Tutto a posto?" e io mi limitavo ad annuire. Feci ciò che mi venne naturale: andai a prendere uno dei miei molteplici dischi e lo inserii nello stereo, posizionato sopra il cornicione del letto. Successivamente andai a prendere la mia valigia e misi i miei vari vestiti nella cabina armadio cantando a squarciagola "moonlight". Terminata quest'operazione scesi e mi avviai verso la cucina dove avevo l'intenzione di bere un bicchiere d'acqua. La casa era deserta e non capivo dove potevano essere finiti mamma, il papà e Carter. Presi un bicchiere dalla credenza e lo riempii d'acqua del rubinetto, poi lo bevvi tutto di un sorso. Carter si parò dietro di me. <Domani è il primo giorno di scuola...> mi disse. Dopo aver preso un mezzo infarto decisi di fare il voto del silenzio e di non rispondergli. Sapevo dove voleva andare a parare. Sprofondai sulla prima sedia che mi capitò a tiro poggiando i gomiti sul tavolo e cercando un qualsiasi genere di post su Instagram in grado di distrarmi da quel l'affermazione e aspettato invano che Carter se ne andasse. <Hai paura?> continuò. Certo che avevo paura. Dopo quello che avevo passato sì. Continuai a non rispondergli. Chiusi gli occhi, lo sentii bruciare, li sentii bagnati. Non potevo piangere, non ora. Gli occhi di tutti puntati addosso. La risata di quelli che pensavo fossero i miei amici. Mio fratello che, al posto di aiutatmi faceva finta di niente. Lei. Flashback di mesi prima continuavano a stagliarsi nella mia mente come in un loop infinito che non era in grado di fermarsi. In Italia pensai sarebbe tutto più semplice. Non so perché, non so come ma so che non avrei tutti questi problemi.
La mattina seguente mi svegliai e, controvoglia, mi preparai per la scuola. Arrivata l'ora di partire la mia ansia era salita a livelli estremi e il mio cuore palpitava come non aveva mai fatto. Uscii di casa con Carter e, mentre camminavo, tenevo la testa bassa. <Hai paura?> mi chiese nuovamente mio fratello Annuii, incapace di dire mezza parola. <Non ti devi preoccupare.> come faceva a dirlo? Lui non sapeva come ero stata e che cosa avevo provato quella sera, no. Lui era a farsi gli affaracci suoi con la sua Madison. <Quest'anno non è l'anno scorso. Magari Madison si è pentita e non farà più nulla del genere.> Avevo sperato, tornaTornata a New York avevo sperato che fosse cambiato, che non pensasse sempre solo a se stesso, pensare anche alla sua sorellina ma... mi sbagliavo, o almeno così pensavo. Speravo che mi dicesse "tranquilla Brooke, ci sono io. Minaccerò chiunque entri nel tuo spazio vitale, non permetterò a nessuno di farti del male o torcerti un capello" ma erano solo fantasie, solo speranze andate in fumo, spazzate via dal vento durante una bufera di neve. Passo dopo passo aumentava la morsa sullo stomaco. Passo dopo passo mi avvicinavo ai miei amici. Ma passo dopo passo mi avvicinavo ai miei nemici finché purtroppo arrivammo davanti alla scuola. Essa era un edificio enorme con la scritta "NYPS" gigante verde sopra l'entrata. Feci la scalinata che ci permetteva di accedere all'atrio con mio fratello ad un passo da me. Li conoscevo bene quei corridoi e non avevo bisogno di alzare la testa per sapere dove stavo andando, perciò continuai ad osservare le mie scarpe che si muovevano in direzione della segreteria. Il corridoio sembrava pressoché immenso, circondato da pareti gialle e armadietti verdi. Entrati nella segreteria ci accolse Margaret, una signora anziana che lavorava come segretaria da molti anni. <buongiorno Brooke! Da quanto non ci vediamo!> disse dandomi un lieve abbraccio <Hai bisogno di aiuto?> mi voltai e vidi Carter dietro di me. Era deciso a non mollarmi ma ero sicura che appena avrebbe trovato qualcuno dei suoi stupidi amici se la sarebbe data a gambe e mi avrebbe lasciata sola a cercare le mie amiche dell'anno scorso. <Margaret io avrei bisogno del mio orario e del numero di armadietto, per favore.> lei si sedette dietro la grande scrivania di legno e digitò qualcosa sul computer, poi stampò e mi porse due foglietti con su scritte le cose che le avevo richiesto. Dopo aver ringraziato e con Carter sempre alle calcagna uscii. Mi faceva male guardare quei corridoi, dove un tempo ridevo e scherzavo con i miei amici ma di punto in bianco, un giorno mi ritrovai... sola. Ecco come mi potevo descrivere in quel momento. Sola. Cercai ancora di guardarmi un po' attorno nella speranza di trovare qualcuno che conoscevo o che non mi avesse voltato le spalle, finché la vidi. Ci stavamo guardando negli occhi. Aveva le mani unite sulla bocca, come per fermare un urlo di felicità che stava per uscire da un secondo all'altro. Ci guardammo per qualche secondo, finché feci il primo passo. Cominciai a correre schivando tutto e tutti, con lo zaino che ballonzolava da una parte all'altra ma continuavo a correre e lei con me. Ci unimmo in un abbraccio fantastico, che mi trasmise tutta l'amicizia che provava, per farmi capire che lei c'era, che non mi aveva voltato le spalle. Nonostante tutto. Nonostante tutti. <Ci sei. Sei tornata!> disse con un filo di voce <Ci sono e non ti lascio più andare.> risposi come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Sydney Cooper, la mia migliore amica di New York, era una delle poche che non mi avevano mai voltato le spalle. <Non sai quanto mi sei mancata in questi mesi!> mi disse Sydney. <Lo so, invece, perché anche tu sei mancata a me!> risposi <Ma ho dovuto farlo... lo sai come stavo in quel periodo.> continuai. Lei mi abbracciò. <Ti prometto che non passerai mai più un momento del genere. Io ci sarò, sempre.>
Da dietro arrivò Carter <Hey Sydney! Sono contento che vi siete ritrovate!> disse, anche se mi sembrava un po' agitato. La mia felicità, ad un tratto, tramutò, la mia spensieratezza diventò angoscia. Il mio cuore batteva forte e la morsa sulla bocca dello stomaco si faceva sentire. Tutto a causa sua. Aveva un vestito (che, a chiamarlo vestito è una bestemmia) fucsia sgargiante, con i capelli biondi portati in avanti e 12 chili di trucco sul viso. Arrivò vicino a mio fratello e gli posò una mano sulla spalla e disse con una voce talmente acuta che neanche la mia cantante preferita riuscirebbe a fare un acuto tanto... acuto <Ciao Carter! Mi sei mancato tantissimo durante le vacanze e... oh... guarda chi si rivede! La signorina "mi sento la padrona della scuola"!> posai subito lo sguardo a terra. Volevo reagire, volevo spalmarle sulla faccia la sua inferiorità e farle capire che era solo una stupida ma il mio carattere non me lo aveva mai permesso. Mi vennero in mente le parole che Sydney mi diceva sempre: "non farti mettere i piedi in testa". Madison era lì, che mi aveva appena dato della signorina "mi sento la padrona della scuola" e lui in tutto ciò non se l'era scollata di dosso. I miei pensieri, però vennero interrotti da una voce. <Si da il caso che non sia Brooke la signorina "mi sento la padrona della scuola" ma quella sei tu: Madison devi incominciare a capire che non sei su nessun piedistallo rispetto a noi! Sei tu che ti senti la padrona della scuola ma qui, di padrone, c'è solo il preside.> detto ciò mi prese per il gomito e mi portò ai bagni. Sydney mi guardava in faccia. I suoi occhi verdi penetravano nei miei, mi rimproveravano. <Non sei stufa di farti comandare da quella?> guardai in basso, sentendomi a disagio. <Non lo so, Sydney. Non riesco a dire niente. Lo sai come sono fatta: mi prende il panico e non riuscirei a mettere insieme una frase di senso compiuto perciò peggiorerei soltanto le cose facendomi un'ulteriore figura di merda!>
Così cominciarono le lezioni, con una prima presa in giro da quell'oca vestita di lactifless e il ritrovamento della mia migliore amica che non vedevo da sei mesi. Ma non sapevo che era solo l'inizio. Arrivata in classe mi si parò davanti un ragazzo alto, con i capelli neri e gli occhi altrettanto scuri. <Oh, scusami! Non l'ho fatto apposta, i miei amici mi hanno spinto!> disse grattandosi la nuca. <Figurati, non mi hai fatto niente!> risposi <Comunque sono Travis, Travis Henderson!> disse porgendomi la mano. <Brooke Davis.> dissi come se fossi congelata sul posto. Giurai di vedere che un filo di malinconia gli percorse il cuore quando pronunciai il mio nome ma io mi facevo molti film mentali perciò non sapevo quanto poteva essere vero. Il nome di quel ragazzo mi pulsò per le tempie per tutto il giorno. Travis, cavolo si chiamava Travis. Ed era come se il profumo della resina ritornasse alle mie narici, era come se mia nonna fosse di nuovo accanto a me che mi aiutava a studiare le poesie sulle stagioni che la maestra ci faceva imparare ed era come se lui fosse ancora con me e non si fosse mai allontanato.
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Lost
Teen Fiction♡ COMPLETA ♡ Brooke Davis trascorse la sua infanzia in Italia, a casa della nonna. A sette anni, però, dovette partire per New York, abbandonando Travis, il suo amico d'infanzia. Brooke ci soffre e spera ogni giorno di ritrovare quel suo amico perd...