Always and forever

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Le tende della finestra ondeggiavano dolcemente spinte dal leggero fruscio del vento notturno, e una grande luna abbagliante si innalzava fiera nel cielo.

Sentivo l'aria fresca sfiorarmi la pelle, tremante a causa dell'ennesimo incubo: Lisa e i bambini, morti.

Era questa la scena che continuavo a vedere incessantemente ogni volta che chiudevo gli occhi da quasi più di un mese, per poi risvegliarmi bagnato di sudore abbracciato al mio cuscino, quest'ultimo umido di lacrime.

Per questo, nonostante avessi iniziato a soffrire di insonnia a priori, rifiutavo di addormentarmi finché le mie palpebre, ormai appesantite, mi lasciavano cadere tra le braccia di Morfeo.

Non che la realtà fosse migliore dei miei sogni, specialmente quando mi ritrovavo ad avere crisi isteriche e depressive senza qualcuno che potesse aiutarmi.

E allora cercavo di darmi forza da solo, sia con l'aiuto di dolci ricordi, sia di piacevoli e allo stesso tempo ingannevoli allucinazioni di cui la mia mente permetteva l'apparizione per tentare di consolarmi, almeno un po'.

Ma quando tornavo in me, mi ritrovavo nuovamente all'interno di quelle quattro mura, circondato dal nulla, incompreso e solo. Ma a dirla tutta, la compressione e la compassione di qualcuno non erano assolutamente nella lista delle cose di cui avevo di bisogno. Non che ci fosse realmente una lista, dal momento che tutte le persone a cui tenevo e che avrebbero potuto davvero aiutarmi fossero morte.

<Morte...sangue...> sussurrai nel sonno, mentre mi guardavo le mani inzuppate del sangue di mia moglie che tenevo in braccio.

Poi uno sparo mi rimbombò nella testa, facendomi svegliare di soprassalto in preda all'ennesimo attacco di panico.

All'istinto suicida.
Alla testa confusa e dolorante.
Al senso di vuoto.
All'odio verso me stesso.

Ed ecco che il mio respiro divenne affannoso mentre sentivo l'agitazione salire prepotente dentro di me, e il pensiero di sentirmi come in una prigione e non poter scappare cresceva a dismisura rendendo tutto più difficile.

Così il cuore iniziò a battermi forte, la pelle a riempirsi di sudore e percepii brividi di freddo percorrere la mia intera colonna vertebrale. Sentivo le gambe tremarmi, che se non fossi stato seduto a letto probabilmente sarei crollato a terra a causa del loro tremore.

La testa continuava a girarmi e lo stomaco mi si aggrovigliava, senza che io potessi fare nulla per impedirlo, se non aspettare che passasse, da solo. Come lo ero io, mentre il mio respiro si smozzava.

E intanto mi lasciavo andare ad un pianto isterico incontrollabile, aspettando che anche quello passasse, forse grazie all'aria che entrava dalla finestra che lasciavo volontariamente aperta proprio per questo.

Nel contempo contavo mentalmente i secondi e poi i minuti. Ma non c'era mai stato un tempo preciso. Un attacco di panico poteva durarmi 10 o 15 minuti finché non fosse passato del tutto, o forse anche di più.

Ma in quei minuti mi sembrava di morire, di non sentire più il contatto con la terra e ritrovarmi con la testa completamente da un'altra parte. Non mi sentivo più cosciente di ciò che facevo o dicevo, e io ho sempre odiato non riuscire a controllarmi.

Ma cosa avrei potuto fare? Urlare non sarebbe servito a nulla, nonostante ogni volta avessi un'incredibile voglia di farlo. Urlare, dalla disperazione, permettendo alla mia povera anima sconsolata di chiedere aiuto. Ma a chi poi? Tutti erano morti. Morti...

<MORTI!> urlai portandomi le mani al capo, tenendole strette a pugno tra i capelli.

Avrei voluto strapparmeli dal cranio uno per uno, fino a morire dissanguato. O lanciare per aria qualsiasi cosa mi ritrovassi davanti e spaccare tutto fino a ferirmi le nocche. Ma forse lanciarmi dal tetto sarebbe stata l'idea migliore. E un giorno l'avrei fatto, certo che si.

Love isn't for everybodyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora