21.

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-dobbiamo tenerla sotto osservazione ancora per qualche giorno, non siamo ancora certi delle sue condizioni psico-fisiche, signorina Sky-

Le mani mi tremavano, avevo bisogno di uscire da lì, era pesante l'aria che si respirava, le urla alla notte, le storie delle persone, le esperienze distruttive degli altri, la vita che sapeva di malato. Per la mia sensibilità era tutto troppo stravolgente e turbativo. E poi pensavo a fuori, ai giorni di scuola che perdevo, ai test che dovevo recuperare e al college che rimaneva ancora un grosso punto di domanda per me.

Sapevo solo che mi piaceva scrivere, scrivere poesie.

Ci pensai molto al mio quadernetto, dove passavo le mie notti insonni a raccogliere pensieri e a formularli  in qualche riga, ma oltre a quel piccolo spazio di me, sembrava che il mondo non avesse nulla da offrirmi.

Mia madre non passò per tutto il giorno, l'avevano chiamata al mattino per dirle che sarei rimasta li più a lungo, un tempo indeterminato, e sapevo che quella situazione l'aveva messa in una posizione logorante, sapevo che avere una figlia come me non era decifrabile da termini se non da sguardi tristi e pieni di amarezza.

Lukas era passato invece, ero in sala fumo e lui entrò, dicendomi che un infermiera gli aveva detto che mi aveva vista qua.

Le mie mani tremavano, la voce era rauca e bassa, ero in imbarazzo, sentivo che quel che vedeva era una ragazza malata e mi sentivo completamente nuda e fragile.

-come stai?- mi chiese

-bene- dissi

-perché mi menti?se sei qui un motivo c'è?-

-che vuoi sentirti dire? sto male Lukas, salvami- dissi con tono ironico -io non sono da salvare, sono da sopportare- aggiunsi con rabbia

-voglio solo la realtà, nessun vittimismo, ma la verità-

-è difficile da raccontare la verità-

-sono il tuo ragazzo, io voglio starti affianco-

-da quand'è che stiamo insieme scusa?-

Lui mi guardò con occhi sconfitti.

-io pensavo che...-

-non mi hai mai chiesto nulla, non hai mai definito nulla-

-perché mi stai attaccando?-

-non lo sto facendo, è la verità, quella che volevi-

-non pensavo che tu avessi bisogno della formalità per definire quello che proviamo l'uno per l'altro-

-io non provo nulla per te Lukas- dissi

La mia voce risuonò in quella 4x4, era sincera e limpida, arida ed aspra. Lo stavo allontanando, volevo allontanarlo.

-me lo dici solo ora? dopo due mesi?-

-prima non ne avevo il coraggio-

Lui si alzò di colpo.

-sono venuto perché ero preoccupato, perché ci tengo a te, perché non ti sei fatta viva per dirmi che cazzo avevi tentato di toglierti la vita, che cazzo stai in bilico, ho evitato di parlare della situazione del cibo per portarti rispetto ma non te ne frega niente-

-forse non ho bisogno d qualcuno che mi porta rispetto ma di qualcuno che mi sbatte la testa al muro e mi fa capire che faccio una stronzata dietro all'altra-

-non è vero, quando si tratta di te non psso aprire nessun argomento perché rischio ogni volta di ferirti con qualcosa-

-forse allora con te non ne voglio parlare-

-con Noah si pero-

-cosa c'entra lui?-

-credi che non lo sappia? Credi che io non sappia quello che provi per lui? Te lo leggo in faccia ogni volta che entri sulle difensive e mi attacchi se divento geloso di lui-

-non sei mai stato geloso di lui-

-se non lo hai visto, allora, non hai capito niente di me- disse uscendo.

Io rimasi seduta, le gambe iniziarono a tremare, i respiri si fecero pesanti e il cuore mi batteva a mille.

Stavo male perche ero certa di tenere a lui ma sapevo di non amarlo, sapevo di non desiderarlo come desideravo Noah.

Tornai in camera, gli occhi gonfi,la testa mi girava, mi sdraiai a letto e iniziai a piangere.

La solitudine mi tagliava a metà, a metà tra l'accettare chi non vuoi e il perdere qualcuno sapendo che nelle mie sole mani ero persa.

Non volevo che le cose andassero così, non volevo sputare quel veleno e sapevo coscienziosamente che avevo sbagliato, che lui non se lo meritava, che aveva fatto di tutto per farmi sentire più amata, meno sola, sapevo che ero stata io, solo io, ad averlo accompagnato nella mia vita piano e lentamente per poi spingerlo via ferocemente.

Ebbi una crisi di pianto, una di quelle formate da urli e calci, lacrime e singhiozzi, quelle intrattenibili.

Le infermiere entrarono in stanza quando tra la foga gettai il vassoio della cena per terra, pure quel cibo mi imbestialiva.

Cercarono di calmarmi, ma non sopportavo essere toccata in quei momenti, cercai di rinchiudermi a chioccia nel mio stesso corpo esile mentre loro mi convincevano a prendere una pastiglia.

Cercarono di tranquillizzarmi ma io non ci riuscivo, volevo vedere Noah, volevo parlare solo con lui, volevo guardarlo ed abbracciarlo, iniziai a ripetere il suo nome capricciosamente.

-chi è Noah?- chiese un'infermiera all'altra

Lei alzò le spalle.

Mi sentivo come una bambina il primo giorno d'asilo, alla prima delusione con l'amichetto, necessitava della mamma a confortarla. Era quel che ero in quei momenti, debole, fragile ed infantile.

Le lacrime diventavano sempre più persistenti, più sentivo che Noah non era li e che non sarebbe arrivato e più piangevo a dirotto.

Le infermiere chiamarono il dottore, gli dissero di Noah, gli dissero che avevo bisogno di vederlo, che mi sarei tranquillizzata solo dopo averlo visto.

Lui sussurrò qualcosa ad una delle infermiere che uscì dalla stanza.

Il dottore rimase li mentre continuavo a piangere, non mi ero tranquillizzata, il farmaco non aveva fatto il minimo effetto, stavo male, mi sentivo sola, vuota e distrutta e a tratti gemiti di dolore fuoriuscivano tra un pianto e l'altro.

L'infermiera rientrò con una flebo.

Me l'attaccarono al braccio ed uscirono dalla stanza, dopo poco mi addormentai con gli occhi ancora umidi e gonfi.

Liberty Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora