CAPITOLO V - L'incidente

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Delle voci in lontananza, una luce bianca ed accecante, un rumore di fondo che ricordava quello delle onde del mare.
«Sono morta» pensai.
Ero morta, eppure mi bruciava terribilmente il braccio destro.
«Si sente bene? E' cosciente?»
Una voce, in perfetto accento inglese, mi stava parlando.
Non avevo il coraggio di aprire gli occhi.
Temevo di trovarmi faccia a faccia con un'entità celeste, pronta ad accogliermi nell'aldilà.
«Signorina! Si svegli!»
Ancora quella voce, e poi due buffetti delicati sulla guancia.
Aprii gli occhi, quel tanto che bastava per rendermi conto di essere ancora viva, ancora in città. Le luci dei grattacieli, per un attimo, sembrarono accecarmi e lo strombazzare dei clacson mi fece pulsare i timpani.
«S...Si...» balbettai, titubante.
Alzai leggermente la testa e mi guardai attorno. Un nugolo di gente, ai lati della strada, si era fermata a guardare la scena e mi fissava con un misto di preoccupazione e curiosità.
«Stava per essere investita da un auto» continuò la voce, severa «Ha attraversato senza guardare, è per caso impazzita?»
Solo allora guardai veramente la persona che mi stava parlando.
Era un ragazzo.
Doveva essere qualche anno più grande di me, indossava il Kandura (l'abito bianco tradizionale arabo) e una Kefiah riccamente adornata sul capo.

Sembrava un principe delle fiabe.

Mi aveva salvato la vita.

Aveva la carnagione olivastra, una barba folta ben definita e due occhi di un nocciola intenso.
«Mi dispiace tanto» esclamai imbarazzata, rimettendomi goffamente in piedi.
Avevo una brutta escoriazione al braccio, nulla che un po' di disinfettante e una grosso cerotto non potessero risolvere, ma per il resto ero perfettamente in salute.
L'auto che mi aveva quasi uccisa sembrava essersi volatilizzata.
Scoprii che non ero l'unica ad avere delle colpe. Sicuramente non avevo prestato attenzione, mentre attraversavo, ma in quel punto la strada si biforcava in una piccola deviazione in cui occorreva dare la precedenza e il conducente doveva, evidentemente, stare correndo parecchio per non avermi vista.
Notai che anche il ragazzo aveva una piccola ferita. La sua tunica era, infatti, strappata all'altezza del ginocchio destro e, in quel punto, si intravedeva del sangue che impregnava il tessuto. Doveva essersi lanciato in mezzo alla strada per togliermi dalla traiettoria del veicolo.
Era stato un gesto davvero eroico.
«Sei ferito anche tu» gli dissi, indicando lo strappo.
Mi guardò a lungo e, finalmente, la sua bocca si aprì in un mezzo sorriso.
«Mi sei debitrice» disse ridendo «credo di averti appena salvato la vita»
Fu così che conobbi Faaris.
Ci fermammo qualche minuto a bordo strada, accanto ad una fontanina. Mi aiutò a recuperare la borsetta ed alcuni effetti personali, tra cui il passaporto, che erano finiti qualche metro più avanti sull'asfalto. Si strappò un pezzo del Kandura e, dopo averlo bagnato con dell'acqua, mi pulì la ferità e me lo avvolse attorno al braccio. Fece lo stesso col suo ginocchio.
«Dimmi quanto costa, ti ho rovinato il vestito, voglio rimediare» dissi.
Rise di gusto.
Lo guardai con aria interrogativa.
«Questo vestito costa circa 3000 dollari statunitensi» spiegò «sembra un costume tradizionale come gli altri ma è di alta sartoria. Fortunatamente a casa ne ho un armadio pieno».
Un mezzo sorriso gli si dipinse sul volto, ironico, quasi beffardo.
Feci un rapido calcolo e, facendo una proporzione della stoffa che aveva utilizzato per fasciare la mia ferita, mi accorsi di essere avvolta in una benda da circa 100 dollari.
«Non so cosa dire» risposi «sono una stupida, ero talmente soprappensiero che ho attraversato senza guardare. Se non ci fossi stato tu, probabilmente sarei morta. Ti devo la vita».
«Mi devi una cena» disse diretto, continuando ad ostentare quello strano ghigno.

Ora che lo vedevo per intero, con calma, non potei non notare la sua straordinaria bellezza esotica. Era altissimo, almeno un metro e ottantacinque, un naso importante ma ben proporzionato sul suo volto e un fisico atletico e imponente.
Nonostante avesse il vestito strappato, poi, trasudava eleganza. Un'eleganza che mi metteva quasi in imbarazzo. Gesticolava in modo armonico, come se tutto quello che era successo fosse per lui un evento come un'altro. Padroneggiava quella situazione con una destrezza che mi intimidì.
«Non so che dire» risposi «sarei ben lieta di accettare se può farti piacere».
«Mi farò sentire io, allora» disse lui guardando l'orologio e cambiando improvvisamente tono della voce «adesso ho un impegno a cui non posso mancare purtroppo».
Notai il pesante orologio d'oro che indossava e le sue dita, lunghe e affusolate, su cui brillavano alcuni anelli anch'essi, evidentemente, preziosi.
Mi chiesi che tipo di persona potesse essere. Dalle poche parole che avevamo scambiato, e dal modo in cui appariva, sembrava essere molto ricco.
Mi salutò con una stretta di mano ed io restai imbambolata a guardarlo mentre attraversava la strada ed entrava in una Lamborghini parcheggiata poco più avanti.
«Ehi aspetta» iniziai ad urlare, ricordandomi improvvisamente che non avevamo scambiato il numero di telefono e che non sapevo null'altro di lui se nn che si chiamasse Faaris.
Feci per correre nella sua direzione ma il pensiero di attraversare nuovamente la strada mi bloccò per un istante e non potei fare altro che osservare il suo bolide partire con un rombo e sfrecciare via a tutta velocità perdendosi nelle strade di Dubai.

La rosa del desertoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora