CAPITOLO XXVIII - Un castello di carte

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Non potevo credere ai miei occhi: James e il ragazzo che avevo immaginato essere un suo amico o, con maggiore probabilità, un suo malvagio complice, si stavano baciando, con passione, i corpi intrecciati dolcemente tra loro in un romantico abbraccio.

Fu proprio James a vedermi per primo e, non appena si accorse della mia presenza, si staccò dal suo compagno come colpito improvvisamente da una doccia gelata, un'espressione di puro orrore dipinta sul volto.

Quella scena mi sconvolse.

Non per il fatto che due uomini si stessero baciando, ovviamente.
Ero sempre stata una paladina dei diritti di tutti, avevo sempre accettato ogni diversità accogliendola come ricchezza.

Ciò che mi sconvolse furono le implicazioni che quel bacio portava con sé.
Se James era gay, come mi sembrava di capire, non era possibile che ci fosse lui dietro quella microspia installata a casa mia, dietro le foto che mi erano state scattate, dietro la sua confessione di essere stato ossessionato da me, di aver perso la testa nel primo momento in cui mi aveva vista.

I conti non tornavano più.
Quel castello di carte, che pure la mia mente aveva accettato malvolentieri, quasi a saziarsene come unica soluzione in grado di spiegare, seppur flebilmente, tutto quello che stava succedendo alla mia vita, era definitivamente crollato.

«James» esclamai, la voce ridotta a un rantolo «cosa ci fai qui?»
«Barbara...» abbozzò lui, incapace di articolare un discorso.
Notai che il suo ragazzo si era nascosto dietro di lui, facendosi scudo del suo corpo, impaurito da quella mia improvvisa presenza, dal mio fare involontariamente minaccioso.
«Non lo dico a nessuno...» sussurrai «state tranquilli».

Salii piano piano i gradini che mi separavano da loro e, finalmente, li raggiunsi.
James si era lasciato crescere una barba incolta, mi sembrava stanco, delle profonde occhiaie gli segnavano il viso ma, fatta eccezione per questi particolari estetici, pareva essere quello di sempre.
Riuscii a osservare meglio anche il ragazzo che lo accompagnava: era biondo, alto e in qualche modo goffo, dalla corporatura atletica: un prototipo molto diverso dal genere di ragazzo che era facile incontrare a Dubai. Avrei azzardato potesse essere svedese, o comunque nord europeo. Mi chiesi di che nazionalità fosse in realtà.

«Cosa ci fate qui?» chiesi nuovamente.
Il ragazzone biondo guardò James, facendogli un cenno a cui lui rispose con un'occhiata d'intesa.
«Stai tranquillo» gli sussurrò «Barbara è una mia amica, non dirà nulla».

Una mia amica? Quel vocabolo mi sorprese.
Come poteva, nonostante tutto quello che era successo, nonostante il suo licenziamento a causa mia, o meglio, a causa della sua ipotetica ossessione amorosa per me, seguitare a definirmi "una sua amica"?
Per un attimo quella sorta di dichiarazione di pace mi lusingò, e mi sembrò di essere ritornata alla normalità, a quei giorni di lavoro e di routine in cui James e io condividevamo l'ufficio. Mi parve quasi di vederlo lì, di fronte a me, con la sua solita pallina antistress e il tipico atteggiamento da intellettuale che lo caratterizzava. Eppure così tante cose erano cambiate...

Quello che stava succedendo aveva creato nella mia testa una confusione da cui non riuscivo a riavermi. Ero disorientata: James sembrava mostrare la gentilezza di sempre, lo avevo appena scoperto amare un altro ragazzo.
Ma allora tutto quello che era accaduto pochi giorni prima che cosa significava?

«Non dirai niente, vero?» questa volta James si stava rivolgendo a me, un tono serio e allo stesso tempo impaurito, quasi si aspettasse una conferma alla fiducia che stava riponendo nel definirmi ancora una sua amica «qui a Dubai le pene sono molto severe per gli omosessuali, se qualcuno ci denuncia rischiamo di finire in prigione. So che dopo quello che ti ho fatto probabilmente pensi che non merito altro ma, ti prego, Frank è innocente, lui non ti ha fatto nulla».

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