CAPITOLO XXV - Avventura in Oman

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Non era la prima volta che salivo sulla Jeep di Faaris, ma in quell'occasione fu diverso.
Forse perché la volta precedente il nostro incontro mi era sembrato pregno di possibilità, di nuove avventure, carico della forza che si portava con sé e che mi permetteva, temporaneamente, di confinare Alessandro in una sorta di oblio, di allontanarmi dalla delusione e dalle difficoltà che ci avevano coinvolti.

Ormai però mi ero resa conto che, per quanto Faaris mi attraesse, per quanto provassi affetto per lui e gli fossi grata per le volte in cui mi aveva fatta sentire protetta, ciò che mi aveva conquistata, al punto da offuscare i miei reali sentimenti per Alessandro, era l'aura che promanava, il suo potere, la sua ricchezza, più che lui stesso.

Mi sentivo terribilmente in colpa.

Mi morsi il labbro, così forte che sentii sulla lingua il sapore metallico del sangue.
Ripensai a quando mi aveva portata nel deserto, al modo in cui aveva pronunciato con disprezzo la parola "denaro", quasi come se dalla sua stessa ricchezza derivassero anche le sue sofferenze, le sue delusioni, le difficoltà, magari, di trovare rapporti stabili.
E adesso, io stessa, mi sentivo pronta a lasciarlo andare una volta esaurita la scarica di adrenalina, una volta che, umanizzandosi, aveva perso parte del fascino irresistibile che mi aveva conquistata.

Ma non potevo continuare a illudere me stessa, a illudere lui, a mentire ad Alessandro.
Dovevo affrettarmi a scegliere prima che una qualsiasi scelta mi diventasse, di fatto, impossibile.

Quella domenica avevo deciso di porre fine alla nostra nascente storia. Sarei stata onesta con me stessa e con lui, avrei provato a rimanergli amica, se lui me lo avesse concesso.
Era arrivato il momento di decidere quale binario percorrere, di abbandonarne uno in favore dell'altro, senza esitazioni.
E, per farlo, avevo deciso di accettare quel suo nuovo invito. Volevo concedergli e concedermi un'ultima prova: un ultimo momento per rendermi conto definitivamente di quello che già, in cuor mio, mi sembrava di aver afferrato con sufficiente sicurezza.

Guardai Faaris con uno sguardo colpevole, remissivo, ma lui non sembrò cogliere il vortice di sentimenti che mi stava inondando.
Ricambiò il mio sguardo e mi sorrise, sereno.
Osservai la strada davanti a me, il paesaggio cambiare a mano a mano che macinavamo chilometri.

Eravamo diretti in Oman.

Quando l'ascensore si era fermato, come la prima volta, al quarantaduesimo piano e le porte scorrevoli si erano aperte, riportandomi alla mente i ricordi del nostro primo incontro, il cuore aveva iniziato a battermi così forte nel petto che quasi mi era sembrato volerne venire fuori, dilaniarlo.
Alessandro era rimasto immobile, come pietrificato, probabilmente incerto su come approcciarmi.
Avevo fatto la scelta giusta?
Avevo peccato di eccessiva intraprendenza?
Ero intimorita, ma quell'energia che avevo sentito dentro di me e che ancora pareva irradiarsi nelle mie cellule, mi stava guidando verso una strada che, in condizioni normali, avrei forse avuto timore a percorrere.

«Andiamo» l'avevo incitato, prendendolo per mano e quasi trascinandolo lungo il corridoio. Si era fatto accompagnare, docile, fino alla porta in fondo, fino alla stanza che aveva visto il nostro primo bacio.
Non ci eravamo più tornati da allora, non ne avevamo avuto bisogno, ma nulla sembrava essere cambiato: il grande tavolo ovale, i quadri alle pareti, le piantine ornamentali.
Mi parve di essermi, come per magia, teletrasportata a una calda sera di alcuni mesi prima, come se niente di tutto quello che ci aveva uniti, divisi, e poi ancora uniti, fosse mai successo.

«Perché mi hai portato qui?» aveva chiesto lui, ritrovando finalmente la forza di parlare ma, dal sorriso divertito che gli increspava le labbra, sembrava già conoscere la risposta. «mi hai rubato le idee, Barbara. Il quarantaduesimo piano è una mia prerogativa».
«Stai un po' zitto» lo avevo apostrofato, prima di saltargli al collo e di baciarlo, con tutta la passione che avevo in corpo.

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