CAPITOLO IV - Quarantaduesimo piano

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«Dove stiamo andando?» chiesi, in preda ad un'inspiegabile scarica di adrenalina.
Per un attimo non rispose, continuando a fissarmi con lo sguardo feroce di un predatore.
Guardai le sue labbra, così carnose, i suoi denti bianchi e perfetti e dovetti resistere all'impulso incontrollabile di baciarlo, nonostante la cosa sarebbe stata certamente poco etica.
Mi chiesi se anche le altre donne, guardandolo, subissero lo stesso fascino magnetico, lo stesso senso di debolezza che stavo provando io in quel momento.
Doveva essere certamente così.
Era un uomo davvero attraente, in carriera, avrebbe potuto avere qualunque ragazza desiderasse. «Voglio mostrarti qualcosa» disse finalmente.
Sperai per un attimo non si stesse riferendo a "quel qualcosa" dato che la situazione stava assumendo contorni un po' strani, ma mi sembrava un ragazzo serio e, dal modo in cui mi guardava, non riuscivo a scorgere nessun tipo di malizia, nessun volgare doppio senso.
Impiegammo poco più di venti secondi per raggiungere il quarantaduesimo piano (l'ultimo).
Gli ascensori a Dubai sembravano avere una velocità supersonica.
Il weekend precedente mi ero concessa una visita al Burj Khalifa, e l'ascensore più veloce del mondo mi aveva portata in pochi istanti, assieme ad un nutrito gruppo di turisti, praticamente sopra le nuvole. Era stato uno spettacolo unico vedere la città dall'alto come se fossi su un aereo, le strade affollate, piene di luci e di vita.
Anche l'ascensore su cui ero in quel momento era estremamente rapido. Un leggero capogiro mi fece pulsare le tempie ma, probabilmente, doveva trattarsi del fatto che la sua presenza mi aveva colta totalmente alla sprovvista.
Nonostante si trattasse di un intervallo brevissimo, però, il tempo parve ugualmente scorrere a rilento, dato il silenzio imbarazzante che si era creato.
Finalmente le porte si aprirono e ci trovammo lungo un corridoio piuttosto ampio intervallato, di tanto in tanto, da alcune grosse piante da interni, tutte verdissime e ben curate. Mi fece cenno di seguirlo lungo quel corridoio e procedemmo, l'uno accanto all'altro, fino a raggiungere l'ultima porta in fondo, sulla cui targa c'era scritto: Conference Room.
Abbassò la maniglia e ci trovammo nella sala conferenze più bella che avessi mai visto.
Un enorme tavolo ovale di cristallo e acciaio faceva sua gran parte della sala. Al posto delle sedie c'erano delle comodissime poltrone in pelle. Allineati sulle pareti alcuni mobili bassi, color perla, animati da piccole piante ornamentali, anche quelle tenute in maniera impeccabile.
Non una foglia secca, non un ramoscello caduto.
Numerosi quadri alle pareti, astratti e dai colori tenui, completavano l'arredamento sobrio ma stiloso dell'ambiente.
Ma quello che lasciava senza fiato, ancora una volta, era la vista.
La cosa particolare di Dubai è che per quanto un grattacielo fosse alto, affacciandosi alla finestra, con tutta probabilità lo sguardo sarebbe caduto su un altro grattacielo, e poi su un altro ancora.
Tutti edifici moderni, tutti di alto design, ma pur sempre blocchi di cemento armato.
In quella sala invece, per qualche strana coincidenza urbanistica, i grattacieli si scorgevano solo ai lati.
Guardando dritto davanti, il panorama degradava verso il mare senza ostacoli e, a un paio di chilometri di distanza, come una macchia scura e infinita, si stagliava maestoso il Golfo Persico. Rimasi per qualche istante incantata a guardare prima di tornare alla realtà e di rendermi conto della presenza ingombrante che era con me nella stanza.

Mi girai verso di lui e gli vidi sulla bocca un sorrisetto compiaciuto.
«Bellissima la vista da qui, non è vero?»
Annuii, senza dire altro.
«Mi piace il contrasto tra la città, così piena di vita, e il mare così silenzioso e nero» continuò «spesso vengo qui il venerdì sera, prima di tornare a casa, e resto un po' a riflettere perdendomi nel panorama»
Continuai a fissarlo, incapace di proferire parola.
«Perché mi hai portata qui?» dissi infine
«Perché ti aspetto ancora tutte le mattine al tavolo del bar, ma non sei mai più venuta» rispose lui, lasciandomi per un attimo interdetta.
«Beh, ma il giorno dopo hai trovato subito una sostituta» esclamai, in maniera più acida di quello che volevo sembrare.
Lui rise, una risata argentina, sincera, e io lo guardai con un misto di stupore e immotivata gelosia. «Stai parlando di Marida presumo. Aveva i capelli scuri ed uno chignon?» chiese.
Annuii.
«E' una collega della Travel Jupiter al quattordicesimo piano. La conosco da due anni. Ha un marito e due bambine piccole. Se avessi prestato più attenzione ai dettagli o semplicemente fossi entrata, invece di restare appoggiata al muro, avresti notato che ha la fede»
Avvampai. Doveva avermi vista mentre lo spiavo.
«Ma non ti biasimo» concluse infine «di certo deve essere difficile resistere ad un uomo avvenente come me» disse ridendo.
Riuscì a strapparmi un sorriso.
«Si potrebbe dire lo stesso di me» scherzai.
«E' così» confermò lui, facendomi avvampare nuovamente.
«Vuoi dirmi perché siamo qui?» insistetti.
«Perché ho intenzione di conoscerti meglio, Barbara» spiegò «E ho questa intenzione fin da prima che tu arrivassi a Dubai, fin dal momento in cui le Risorse Umane mi hanno comunicato la tua assunzione. Ho visto il tuo curriculum, la tua foto e ho letto la tua tesi di laurea: brillante oserei dire».
Non riuscii a replicare.
«Non lascio mazzi di rose a tutti i nuovi assunti».
«Ma è assurdo» esclamai a voce, forse, fin troppo alta. «Come è possibile invaghirsi di una persona senza neanche conoscerla, leggendo una tesi di laurea o guardando una foto? E' una cosa quasi maniacale, non credi?»
Quelle sue esclamazioni mi sembravano al limite dell'assurdo.
«Niente affatto» continuò «credo che scrivere apra le porte dell'anima, e in quei tuoi scritti c'è passione, intelligenza, ed anche audacia dato che hai trattato temi davvero scomodi in più occasioni. E poi, quando ti ho vista quella mattina al bar mentre ti passavi una mano tra i capelli, ho capito che non mi ero sbagliato e che avrei fatto di tutto per conoscerti».
Restai qualche secondo a riflettere, cercando di dare un senso a ciò che mi stava confidando.
«Però, quando sei venuta per la prima volta nel mio ufficio, sul tuo viso c'era un misto di sconcerto e di timore reverenziale. In quel momento mi sono reso conto che, forse, avevo sbagliato ad invitarti al mio tavolo senza rivelarti chi ero. Avrei potuto accennartelo, certo, ma non ho saputo resistere al desiderio di conoscere la vera te prima che qualsiasi tipo di rapporto professionale o di convenzione sociale riuscisse ad irretirci. Almeno adesso credo che saprei riconoscere se sei vera o se fingi».
Cercai un modo per controbattere alle sue affermazioni, per trovare una falla nella sua dialettica in modo da riprendere il controllo della situazione, ma non ci riuscii.

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