CAPITOLO XXXIII - Le rose del deserto

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Le vidi sfilare leggiadre, l'una davanti all'altra, prima che mi si disponessero davanti, ordinate, come schierate in una sorta di strana formazione militare.

All'inizio ne riconobbi soltanto una: Jessica.
Proprio lei, la Jessica Sawyer del volantino, la Jessica Sawyer destinataria delle rose, la ragazza sparita e poi ritrovata era lì, in carne e ossa, davanti a me.
Era molto diversa dalla ragazza americana che avevo visto in foto, non fosse altro per il vestito nero che ne nascondeva le forme e ne oscurava i lineamenti.
Ma, da quello che potevo notare, la somiglianza con me, dal vivo, era ancora più impressionante.
Eravamo alte entrambe poco più di un metro e settanta, gli stessi occhi chiari, la stessa carnagione delicata e, dal ciuffo che le scendeva ribelle sulla spalla, lo stesso colore di capelli.

Al suo fianco -la riconobbi solo in un secondo momento- Alina Meshikova: l'altra ragazza scomparsa, l'altra giovane che i giornali sostenevano fosse stata ritrovata e che invece, per qualche oscuro motivo, era lì, prigioniera di Faaris.
Anche lei mi somigliava, in maniera forse meno evidente di Jessica. I suoi tratti sembravano ancora più chiari e delicati dei nostri, i suoi occhi di un azzurro più intenso, il tipico colore dell'est Europa. Nel complesso, comunque, ci avrebbero tranquillamente potute scambiare per sorelle.

Per non parlare, poi, delle altre due ragazze.
Mi sembrava di trovarmi davanti a dei cloni, quasi robotici nei movimenti che pure, però, apparivano aggraziati, familiari, come se un folle scienziato avesse messo insieme dei geni per produrre me stessa in serie.
Ero impressionata.

Ai lati della sala, al centro fra i due corridoi di ciascun lato, stavano di guardia altri due uomini armati, vestiti però con l'abito bianco tradizionale, il kandura. Immaginai potessero appartenere a un personale di più alta levatura, di più alto rango.
«Penseranno loro a te» mi disse l'uomo all'orecchio, lasciando finalmente la presa «fai la brava bambina se non vuoi che ti succeda qualcosa».

Annuii.
Non avevo intenzione, almeno per il momento, di fare mosse azzardate.
La presenza delle altre ragazze mi aveva, in qualche strano modo, rassicurata: forse mi sarei potuta guadagnare la loro complicità, la loro fiducia, e avremmo potuto trovare insieme il modo di fuggire da quella prigione. Jessica, in particolare, sembrava guardarmi con occhi pieni di curiosità, di un colore azzurro che mi sembrava a poco a poco farsi più intenso, quasi come se volesse trasmettermi silenziosamente qualcosa.

Finalmente i due energumeni lasciarono definitivamente la presa e indietreggiarono, uscendo dalla medesima porta da cui eravamo entrati, tirandosela alle spalle e richiudendola a chiave.

Ecco, ero arrivata a destinazione: quella doveva essere la mia prigione dorata, lo spazio dedicato alle concubine di Faaris. Ormai avevo capito perfettamente quale fosse il suo oscuro disegno, il motivo della mia presenza lì.
Adesso mi era chiaro anche il perché di quella seconda dimora, inclusa nella prima.
Era la sua casa delle bambole, il posto dove le sue donne vivevano in attesa che lui le usasse, una dopo l'altra, per il suo piacere, trattenendole come animali in gabbia, incapaci di avere una vita propria al di fuori di lui.
Purtroppo l'avevo capito troppo tardi, ma -giurai a me stessa- sarei morta pur di impedire che facesse di me una serva.

Feci qualche passo incerto in direzione delle ragazze, senza sapere come comportarmi. Gli uomini con il kandura ci guardavano distanti, silenziosi, come aquile pronte all'attacco, senza muoversi. Fu Jessica a prendere in mano la situazione: mi porse la mano e io mi avvicinai a lei e la strinsi, forte, come se da quel contatto potesse dipendere la mia salvezza, l'instaurarsi di un rapporto speciale con una ragazza che condivideva la mia situazione e il mio stato d'animo. Mi affidai a lei come un bambino si affida alla madre, mi lasciai guidare e, in men che non si dica, eravamo l'una accanto all'altra mentre percorrevamo il corridoio che avevo visto alla nostra sinistra.

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