CAPITOLO XXVI - Il demone dentro di lui

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«Barbara, Barbara...»
La voce di mio padre.
«Papà!» provai a urlare, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.
«Barbara...» mi chiamò ancora lui.
Le sue parole sembravano carezzare la mia pelle con un tocco leggero, etereo.

Improvvisamente ero al suo capezzale, in uno dei suoi ultimi giorni.

La stanza d'ospedale era deserta, dalla finestra gli alberi così verdi e vivi creavano uno strano contrasto con l'ombra imminente della morte che vedevo riflessa nei suoi occhi, negli occhi dell'uomo che mi aveva dato la vita, che mi aveva cresciuta, che mi aveva donato tutto se stesso, in ogni istante, senza mai risparmiarsi.

Era un gioco ironico del destino, un avvicendarsi di cause ed effetti che racchiudevano l'essenza stessa del ciclo vitale, quello che da secoli, da millenni, accomunava il genere umano: ricchi, poveri, tutti vi erano parimenti soggetti.
La sofferenza della fine, quell'istante che, prima o poi, toccava a tutti.
Ad alcuni soltanto prima che ad altri.

«Barbara...» ripetè, la voce roca, gli occhi spenti, ma nonostante tutto un timido sorriso disegnato sul volto.
Mi avvicinai a lui, mi sedetti su quel letto che ormai era diventato un po' anche il mio, gli presi la mano.
«Promettimi...» mi disse «che ti prenderai cura di tua madre, che farete di tutto per sostenervi a vicenda e, soprattutto, che continuerete la vostra vita, che andrete avanti»
Sapevo che non sarebbe stato facile, che non l'avrei mai e poi mai dimenticato.
Ma ordinai a me stessa che avrei eseguito il suo desiderio.
«Te lo prometto» dissi.

Improvvisamente aprii gli occhi.
Tutto quello che vidi furono minuscole stelle verdi, filamentose. Mi sembrò di essere tornata nel ventre materno, nel liquido amniotico che culla i bambini per mesi prima di darli alla luce. Era caldo, in qualche modo rassicurante. Mi dondolai per qualche istante in quel limbo che pareva non avere spazio, non avere tempo.

Feci per respirare e l'acqua mi inondò i polmoni.

Tornai in me quasi come con uno strappo, una sensazione dolorosa difficile da descrivere.
Fu come se mille spilli mi avessero trapassato lo sterno, pungendomi le viscere e annebbiandomi la vista.
Il mio cervello, probabilmente per istinto di sopravvivenza, pur se rallentato e intontito dall'urto preso, si svegliò di colpo, registrò quel dolore come pericolo di morte, e causò una scarica di adrenalina così forte che tutto il mio corpo iniziò a tremare, come in preda a uno spasmo.

D'un tratto ricordai: ero in acqua, e i puntini verdi che vedevo non erano altro che le minuscole alghe che conferivano il caratteristico colore verde al mare dell'Oman.
Ma dov'era Faaris? Perché non mi aiutava a venire fuori da quell'abisso?

Feci appello a tutte le mie forze, a quell'impulso atavico di respirare. Cercai di orientarmi, di venire fuori dalla matassa ingarbugliata che mi circondava fumosa e mi rendeva difficile pensare.
"La luce, segui la luce" mi dissi.
Ed eccola lì: la luce del sole, proprio sopra la mia testa.
Scalciai, mossi le braccia più forte che potevo, cercai di raggiungerla e, infine, spezzai lo specchio immobile della superficie ritornando al mondo.

Tossii, più e più volte, il naso e la gola mi bruciavano, i polmoni sembravano come avvizziti su loro stessi.
Mi faceva male il petto, avvertivo dolori ovunque, ma ero ancora viva.
«Aiuto» cercai di urlare, ma dalla mia bocca uscì solo un rantolo confuso.
Tossii, sputacchiai, e poi tossii ancora.
A poco a poco mi sembrò di ricominciare a respirare, a vedere, a percepire.
Il colore delle rocce, il sole che brillava alto nel cielo e, a pochi metri di distanza da me, Faaris, che nuotava con vigorose bracciate nella mia direzione.
«Barbara!» urlò.
«Sono qui, aiutami!»
Mi raggiunse e mi prese la testa con una mano aiutandomi a restare sopra la superficie dell'acqua.
«Stai tranquilla, ti riporto allo Yatch!»
Mi passò un braccio attorno al busto e, nuotando lentamente, mi trascinò verso l'imbarcazione.

La rosa del desertoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora