CAPITOLO XXIII - Il dramma di Angela

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«Quando l'hai scoperto?» le chiesi, cercando di farla sentire a suo agio, per quel che potevo.

Angela era seduta di fronte a me, all'altro capo di un elegante tavolino di legno.
In testa teneva avvolto un foulard, segno inequivocabile del dramma che stava vivendo.

Me n'ero accorta subito, non appena l'avevo guardata. L'avevo vissuto troppe volte, attorno a me, sui miei cari, per non accorgermene.
Il volto, ancora florido, mostrava appena i segni delle chemioterapie. Era bella, e lo sarebbe stata sempre, ma nel pallore delle guance, nelle piccole rughe attorno alla bocca, si intravedevano chiari i segni della sofferenza, della paura.

«Otto mesi fa» mi rispose «all'inizio, come una stupida, avevo deciso di non preoccuparmene, di temporeggiare. Ero troppo impegnata a inseguire la mia carriera, a non lasciare che nessun ostacolo potesse fermarmi. Ma poi, come vedi, mi sono dovuta arrendere»

Fece una risatina nervosa, di amarezza.

«Non ti sei arresa» le dissi «stai semplicemente combattendo una battaglia diversa, una battaglia che devi assolutamente vincere, per ritornare alla tua vita di sempre»

Ripensai a mio padre.

Non amavo parlarne e quando le persone mi chiedevano di lui rispondevo in maniera fredda, distaccata, ma la verità era che il cancro me lo aveva portato via quando ero solo una ragazzina e, per quanto fingessi che tutto andasse bene, per quanto avessi ripreso in mano la mia vita cercando di appianare la sua mancanza, non c'era giorno che, almeno una volta, almeno per un secondo, non rivedessi il suo volto, il suo sorriso. Forse non mi andava di ammettere a me stessa che, a distanza di più di dieci anni, nonostante il tempo fosse riuscito a cicatrizzare quella ferita o, almeno, a renderla meno insopportabile, lui mi mancasse ancora.

Le presi la mano, anche se la conoscevo a malapena. La guardai negli occhi e in quel momento, per quanto possa suonare sgrammaticato dirlo così, ebbi la certezza che lei sapesse.
Che sapesse che io sapevo.

«Ecco perché» spiegò «ci siamo incontrate a quella raccolta fondi di beneficenza. Sono venuta qui a Dubai perché ci lavora un caro amico. È un luminare nelle terapie per la lotta contro il cancro al seno, in particolare della variante che ha colpito me, e mi ha invitata qui per prendermi sotto la sua ala, per aiutarmi a guarire»

Ripensai a quante volte l'avevo demonizzata, vedendola come la strega malvagia che voleva portarmi via Alessandro. L'avevo odiata, senza neanche conoscerla, senza nemmeno sapere le ragioni che l'avevano spinta a venire in città.
Me ne vergognai profondamente: che meschina che ero stata.

«Non ti nascondo» continuò «che il fatto di trovare anche Alessandro qui è stato uno dei fattori che mi hanno spinta ad accettare di sottopormi ai trattamenti negli Emirati. Sono figlia unica, Barbara. I miei genitori sono molto anziani e ho pensato sarebbe stato ingiusto caricarli di tali preoccupazioni, di un tale fardello. Non sanno nulla di quello che mi sta succedendo. Ho pensato, egoisticamente forse, che la presenza di Alessandro avrebbe potuto essermi di grande aiuto. Benché avessimo deciso di lasciarci, i nostri rapporti sono rimasti sempre buoni, e l'affetto che ci lega è molto forte»

Non potevo biasimarla.
Cosa avrei fatto io al suo posto?
Probabilmente mi sarei comportata nello stesso modo. Mi sarei affidata alla forza di amici e parenti, delle persone più care e fidate, a prescindere da dove ciò mi avrebbe portata. Nel suo caso la vita, il destino, l'avevano portata proprio lì, a Dubai.

Continuò a parlare, mentre io ascoltavo, in silenzio.

Non mi sentivo degna di proferire parola durante quel racconto. Mi vergognavo già abbastanza per come mi ero comportata.
Quella era la sua vita, e volevo che mi dicesse tutto ciò che desiderava senza interruzioni.
Sono sempre stata fermamente convinta che una delle doti più virtuose sia quella di saper ascoltare. Non ero certa di saperlo fare, di poterci riuscire, ma volevo almeno provarci.

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