CAPITOLO XXXVIII - Ritrovarsi

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Impiegammo almeno due ore per tornare a Dubai dopo essere scappati dalla dimora di Faaris, da quella prigione.
Eravamo esausti.

Avevamo spazzato via, alla meglio, i frammenti di vetro che infestavano il sedile posteriore come aguzzi e velenosi pungiglioni, ricordo del rischio mortale che avevamo corso, e ci eravamo praticamente sdraiati, l'uno sull'altro, totalmente debilitati.

Jessica aveva chiuso gli occhi, addormentandosi quasi subito. Alessandro, invece, li teneva fissi davanti a sé, persi nel vuoto. Persino Angela, che aveva dimostrato un'energia e una forza d'animo incredibile, era sfinita, al punto che, una volta percorsi una ventina di chilometri, ci eravamo dovuti fermare a un'area di servizio per permetterle di riposarsi. Alessandro, tirandosi su a fatica, si era offerto gentilmente di darle il cambio alla guida, e così lei venne a sedersi dietro, accanto a me. La circondai in un abbraccio e, meno di cinque minuti dopo, si addormentò, la sua testa contro la mia spalla. Era stata un'eroina quella sera, ci aveva salvati tutti. Continuai a osservarla, la sua pelle chiara, il suo copricapo, mentre cercavo di mettercela tutta per non addormentarmi a mia volta.
Non volevo lasciare soli Alessandro e James, non volevo lasciarmi andare alla stanchezza, non ancora. Provai a tenergli compagnia, provai a intavolare qualche discorso ma, senza che riuscissi a controllare il mio corpo, dopo qualche minuto caddi a mia volta in un sonno profondo.

Quando mi svegliai, fui colta da un attacco di panico nel vedere l'oscurità attorno a me.
Immaginai di trovarmi nuovamente in prigione, sola. Temetti, per un istante, che tutto ciò che era successo, quel salvataggio, la fuga, fossero stati soltanto frutto della mia immaginazione, una proiezione irrealizzata delle mie speranze. Senza riuscire a controllare i miei gesti, iniziai a dimenarmi, svegliando di soprassalto anche le due ragazze.

«Che succede?» chiese Angela, allarmata «Barbara, che ti prende?»
«Dove siamo?» strillai «dove siamo?»
«Siamo nel mio garage, Barbara, stai tranquilla» disse Alessandro, cercando di rassicurarmi «abbiamo preferito non lasciare il pick-up in strada in queste condizioni. Qualcuno avrebbe potuto notare i danni e chiamare la polizia. Per stasera resteremo tutti a casa mia, siamo troppo stanchi e provati per fare altrimenti. Domani, con calma, valuteremo il da farsi».

A poco a poco mi calmai. Feci dei respiri profondi e sentii il battito del mio cuore che cominciava, finalmente, a stabilizzarsi.
Fui estremamente grata per quella decisione.
Il pensiero di separarci, di allontanarmi fosse anche da uno solo di loro, mi sarebbe costato troppo, sarebbe stato addirittura inconcepibile.
I due ragazzi ci aiutarono, quindi, a uscire dal veicolo, prestando attenzione a non farci ferire dalle schegge che occupavano ancora le intelaiature dei finestrini distrutti e sembravano coprire ogni centimetro cubo dei sedili, nonostante durante il viaggio avessimo, con delicatezza, provato a ripulire, per quel che potevamo, la vettura.

Alessandro mi strinse a sé, una volta uscita, abbracciandomi forte.
Ero commossa ma, allo stesso tempo, talmente sconvolta che non ebbi neanche la forza di piangere. Ricambiai soltanto l'abbraccio e mi aggrappai a lui, lasciandomi praticamente trascinare fino all'ascensore, e poi fino alla porta del suo appartamento. Fu soltanto una volta dentro che, almeno in minima parte, iniziai a sentirmi nuovamente al sicuro.

Trovammo, a stento, la forza di darci una veloce ripulita e di mangiare un boccone, prima di lasciarci andare, esausti, a un meritato riposo. Dalla finestra la luce della luna piena illuminava la stanza di un tenue chiarore. Era finita, ero viva.
Io, Angela e Jessica ce l'avevamo fatta. Insieme.
Avevamo preso posto sul letto matrimoniale di Alessandro, tutt'e tre, mentre i ragazzi si erano organizzati per condividere il divano letto.

Fui l'ultima ad addormentarmi. Non che non fossi anche io stremata, anzi. Ma, in quel caso, fu una scelta consapevole. Il respiro regolare delle altre sembrava sortire su di me uno strano effetto calmante. Continuavo a tenere gli occhi puntati su quella finestra, sul cielo che, di minuto in minuto, sembrava cambiare forma, come un mare infinito puntellato da minuscole lucine bianche. Ero in un letto, circondata da persone che mi volevano bene, ero fortunata.
Sì, ero fortunata, e volevo godermi il più possibile quel momento.

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