CAPITOLO XXXVI - La resa dei conti

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«Alessandro!» esclamai, esterrefatta «che cosa ci fai qui?»
«Barbara!» ruggì lui «mio Dio, stai bene?»

Mi strinse forte a sé, un abbracciò così potente che sembrò spezzarmi le ossa ma che, allo stesso tempo, mi rinvigorì come una medicina miracolosa. Cercai le sue labbra, lui cercò le mie, furiosamente, quasi come se da quel contatto dipendesse la nostra stessa vita.
Ci baciammo e, per un istante, solo per un istante, mi sembrò di trovarmi fuori dal mondo, in una dimensione parallela nella quale nessuno avrebbe potuto trovarci: un limbo di pura gioia in cui eravamo sospesi, soli, al sicuro.

«Presto» mi incalzò «dobbiamo andare!».
«Ma come...»
Mi zittì con una mano.
«Ti spiegherò tutto più tardi, adesso dobbiamo soltanto uscire da qui il più velocemente possibile».
«D'accordo».

Non avevo intenzione di obiettare. Averlo lì, al mio fianco, era il regalo più bello che la vita potesse farmi. Avrei svolto alla lettera ogni suo ordine, l'avrei seguito in capo al mondo.

Mi guardai rapidamente attorno, ancora confusa, e notai che la porta principale, quella che dava sulla sala grande del pianterreno, era aperta. Dal basso le urla e gli strepiti sembravano ancora più vicini, ancora più paurosi, di quanto non lo fossero mentre ero nell'ala della servitù, occupata nella mia fuga solitaria.

Avvertii chiara la voce di Faaris, in un tono allarmato che non gli avevo mai sentito prima, rivolgersi a qualcuno e poi, immediatamente dopo, una voce maschile profonda, baritonale, rispondergli qualcosa con la stessa intensità, la stessa rabbia che sembrava promanare da lui.

«Che cosa sta succedendo, Alessandro?» chiesi, allarmata. Lui non mi rispose, mi prese per mano e mi trascinò fuori.

Fu allora che, affacciandomi alla balaustra, vidi la scena surreale che si stava svolgendo nel salone sottostante.
Faaris era tenuto al muro da due tizi nerboruti.
Urlava qualcosa contro un uomo di mezza età, dall'aspetto, tuttavia, ancora piuttosto vigoroso, su cui, a sua volta, erano puntate delle armi da fuoco. Erano proprio gli scagnozzi di Faaris -ne riconobbi alcuni che avevo visto lavorare per lui a palazzo- che lo tenevano sotto tiro, in uno strano gioco di potere di cui non riuscivo assolutamente a capire le squadre.

E poi, quell'uomo...
Mi sembrava stranamente familiare, ero convinta di averlo già visto da qualche parte, ma dove?
Improvvisamente ricordai.
L'ascensore.
Il ristorante dove aveva avuto luogo il primo appuntamento tra me e Alessandro e dove avevo visto casualmente -anche se ormai avevo capito che nulla di ciò che mi era successo in quei mesi era stato dovuto al caso- Faaris.

Come in un flashback rividi la me stessa di qualche tempo prima, ancora ingenua, ancora innamorata, battere con i pugni sulle pareti di vetro di quell'ascensore, per cercare di attirare la sua attenzione, per fare in modo che lui mi vedesse. E rividi quell'uomo che lo accompagnava guardarmi, con un'espressione glaciale, totalmente priva di gioia, dipinta sul volto. Ricordai di essermi chiesta perché, nonostante anche lui mi avesse vista e avesse notato il modo in cui mi sbracciavo, non avesse avvertito Faaris, non lo avesse reso partecipe della mia presenza.
Ma chi era quell'uomo?
E perché adesso si trovava lì?

«Andiamo, Barbara» Alessandro mi strattonò, strappandomi bruscamente a quei pensieri «che ti succede? Non abbiamo molto tempo».

Mi costrinsi a venire fuori da quella nube di ricordi e lo seguii, il cuore a mille.
Evitammo accuratamente la scalinata principale, quella che ci avrebbe esposti direttamente al trambusto che stava accadendo al piano di sotto.
Svoltammo, invece, a sinistra e proseguimmo fino a raggiungere un'altra scalinata, più piccola, più nascosta.

«Sono salito di qui prima» mi spiegò lui «conduce all'entrata principale, ma evitando la sala da pranzo. É meglio che non ci vedano mentre scappiamo».

La rosa del desertoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora