Capitolo nove

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Il pomeriggio era trascorso tra prove, discussioni, risate e montagne di fans urlanti ad attenderli sia fuori l'arena che attorno e dentro l'hotel.

Slash si era fermato più volte a firmare un paio di autografi e si era prestato a qualche veloce foto sempre sotto l'occhio vigile della sua bodyguard e in quel momento, solo tra le mura della sua camera d'albergo, si trovò a pensare un po' a sé, al suo presente innegabilmente legato al passato. A come l'avanzare dell'età avesse placato il vulcano che per anni aveva alimentato la sua vita sul filo del rasoio.

Non c'erano più droghe né più bottiglie di Jack o vodka a riempire il vuoto che lasciava la solitudine o il successo, e il non sentirne minimamente il bisogno lo aveva reso una persona migliore. Era steso sul letto, in canotta e boxer che solitamente usava solo quando non aveva addosso i suoi pantaloni di pelle, e cercava di riposare con le dita allacciate dietro alla testa.

Il trillo del cellulare lo destò da quella sorta di riposo ristoratore. Aprì un occhio e voltò la testa verso il comodino, allungando una mano per afferrare il suo IPhone che inclinò per meglio leggere il nome nello schermo.

Perla.

Chiuse gli occhi e sospirò prima di portare il cellulare all'orecchio e rispondere, già pronto all'ennesima, sicura litigata.


Liv uscì dalla doccia e si avvolse nel morbido panno bianco, racchiudendo i capelli in un turbante ben fissato in testa. Lasciò il bagno e guardò l'abito nero che pendeva da una gruccia appesa all'anta dell'armadio. Arrivava fin sopra le ginocchia e le avrebbe accarezzato le curve, definendo bene il morbido décolleté elegantemente esposto.

All'improvviso la sua attenzione venne richiamata al di là di quell'abito, oltre l'armadio e la parete dove una profonda voce maschile stava lentamente cambiando di tono, sempre più seccata, quasi a limite di quello che pareva essere un litigio. Ricordò a se stessa che Slash soggiornava dietro quel muro e probabilmente era alle prese con una delicata telefonata.

Captò una serie di domande dall'aria forse retorica, qualche parolaccia a intercalare in quel discorso e il nome Perla, seguito da un chiarissimo fa come cazzo ti pare, ciao.

Il cellulare iniziò a suonare e Liv raggiunse il letto, sedendosi sul materasso per poter rispondere, ancora con la testa rivolta verso la parete opposta. Dal display lesse il nome del padre e portò l'apparecchio all'orecchio.

- Liv, tesoro, mi devi fare un favore. Sono già in auto, diretto in teatro e non riesco a contattare Slash. Sei in Hotel?- chiese Steven dall'altra parte con voce stanca.

- Sì papà, sono in stanza. Cosa succede?- domandò con un filo di preoccupazione nella voce.

- Tesoro, passa da lui, è la suite accanto alla tua e digli di chiamarmi. Non risponde né al cellulare né tantomeno al tramite reception.-

Liv rimase per qualche secondo in silenzio e aggrottò le sopracciglia fissando il suo abito nero come se fosse trasparente, come se potesse scorgere al di là la sagoma dell'uomo che nascondeva le sue emozioni intime dietro quella matassa di capelli ricci. Provò a dire al padre di riprovare a chiamarlo nuovamente o magari più tardi, che forse era occupato o forse dormiva ancora, ma la supplica di Steven, quel per favore sussurrato a mezza voce, le fece cambiare idea e sospirando decise di fare quello che le era stato chiesto: bussare alla porta del chitarrista.

Si infilò l'intimo e lasciò scendere sul suo corpo uno dei vestiti anonimi, pescato senza troppe accortezze dalla valigia ai piedi del letto. Liberò i capelli ancora umidi dall'asciugamano e li assicurò in una crocchia dietro la nuca. Infilò le infradito e uscì dalla stanza.

Sweet child of mineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora