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La madre di Lidya la invitò a seguirla e prese a passeggiare lungo il corridoio dell'ospedale. Man mano che avanzavano, il passaggio si liberò da tutto e il corridoio diventò una lunga passerella bianca e splendente che sembrava non avere mai fine.

Era come quando nei film mostravano il paradiso, pensò Lidya rimanendo però in silenzio. Il pensiero di essere morta la lasciò confusa, ma, si accorse, non le fece paura. Diciamo che stia sognando le aveva detto. Se avesse potuto, lei quel sogno lo avrebbe messo nella lista degli incubi da cui svegliarsi prima possibile.

Il suo pensiero volò a Steve e Bruce. Erano dietro il vetro ad aspettare che la Tac finisse, ma cos'era successo alla sé sdraiata sul lettino, quando si era risvegliata in quella specie di sogno. Si era forse sentita male? O era come se stesse semplicemente rimanendo ferma in attesa di finire? Come funzionava esattamente il tempo nella realtà mentre lei stava sognando?

"Chiedi pure" le disse la donna che le camminava accanto, sua madre. "Immagino che avrai parecchie domande."

Lidya pensò di non chiedere nulla, se non altro per non darle soddisfazione. Ma le domande erano troppe e non poteva pensare soltanto a se stessa, non in quella situazione. "Mentre sono qui a passeggiare con te" chiese senza guardarla, "cosa sta succedendo alla me sdraiata sul lettino?"

"Niente. Il tempo scorre diversamente. Stai ancora facendo la Tac e per quando avrai finito, anche noi avremo finito, te lo assicuro."

"Puoi manipolare il tempo a tuo piacimento?"

"A volte, se serve. E, anche se non lo hai mai fatto, anche tu puoi."

Lidya rise. "Non credo proprio. Penso che tu mi stia confondendo con qualcun altro. Forse con un'altra figlia che hai abbandonato dopo averla messa al mondo."

C'era risentimento nella sua voce e la donna parve capirlo. Non la biasimava. "Capisco il tuo risentimento, la tua rabbia. Sono qui proprio per spiegare."

"Spiegare?" le fece eco Lidya. "Dopo quasi trentaquattro anni? Cosa vuoi spiegare esattamente?"

"Qualunque cosa tu ritenga necessaria. So che mi odi, ma..."

"Io non ti odio" Lidya scosse il capo. "Non ti conosco neppure. Mi sei completamente indifferente."

Le sue parole erano dure, se ne rendeva conto, ma era quello che provava e non voleva mentire.

"Va bene" borbottò la donna. "Me lo merito. Ma voglio solo la possibilità di raccontarti la mia versione. Chiedimi quello che vuoi e se non ti piaceranno le risposte, se non le riterrai sufficienti, non mi vedrai mai più."

Quello poteva andarle bene, pensò Lidya. Le stava offrendo la possibilità di sapere senza metterle alcun vincolo. Era già una mezza vittoria. "Sei davvero un angelo? Ti chiami davvero Charlotte?"

"Sono un angelo, sì. E il mio nome è davvero Charlotte."

"Mio padre..." Lidya faticava a trovare le parole. "Ha sempre saputo che non eri umana?"

"Sì, lo ha sempre saputo. Non mi era concesso entrare in contatto con gli esseri umani, ma io ero curiosa. Ero affascinata da loro: cadevano preda dei loro fallimenti, ma continuavano a rialzarsi. Possedevano una determinazione che mi ammaliava. Li osservavo spesso, mescolandomi tra loro, ma non potevo interagire."

"Però con mio padre hai interagito. E anche parecchio direi."

"Sì, tuo padre, il mio Edward, era speciale. L'ho incontrato in un parco: stava mangiando un tramezzino seduto su una panchina e c'era qualcosa in lui... sapevo che avvicinandomi avrei violato delle regole, ma non ho potuto farne a meno" si fermò un attimo, e la guardò. Lidya le fece cenno di continuare. "Mi avvicinai solo per guardarlo più da attentamente, ma essere fissati mette gli esseri umani a disagio e così mi chiese se ci fosse qualche problema. Risposi di no, gli dissi che ero solo curiosa. Mi chiese se ero di quelle parti e quando scossi il capo si offrì di raccontarmi qualcosa della città. Parlammo per ore e poi lui tornò al lavoro, io venni richiamata ai piani alti."

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