CAPITOLO 3

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Chiusi la chiamata e infilai di fretta il telefono in tasca. Avevo iniziato a sudare, tremavo tutto e un brivido mi percorse lungo la schiena, ero nel panico.
Subito iniziai a correre, scansando piú persone possibili, in quel momento non mi importava di passare inosservato o di scappare, dovevo semplicemente trovare un accompagnatore e andarmene da quel maledetto edificio.
Vidi George che rideva allegramente con altri ragazzi, i suoi capelli rossi erano illuminati dalle luci colorate e dalla sua bocca fuoriuscivano cerchi di fumo provenienti dalla sigaretta elettronica che teneva in mano.
Se non fossi stato così agitato, probabilmente ci avrei pensato due volte prima di parlargli di fronte a delle persone che non conoscevo, ma in quel momento ero del tutto fuori di me e non ci pensai.
"George.... i-io..... mia madre..... fuori...." tentai di formulare una frase di senso compiuto, ma provavo cosí tante emozioni negative in una sola volta che non ci riuscii.
Mi mancava il respiro, ma non ero spaventato, ero semplicemente in una situazione di preoccupazione e ansia estrema.
A dire la verità era da un po' che la mia vita mi sembrava tutta uguale, noiosa, triste e priva di vivacità, e scoppiare cosí, di punto in bianco era davvero troppo, non sapevo se sarei riuscito a sostenerlo.
"hey, hey amico!" disse appoggiando sul comodino dietro di lui la sigaretta e prendendomi per le spalle nella speranza di tranquillizzarmi "calmati" mi disse, guardandomi dritto negli occhi, cosa che non fece altro che aumentare il mio stato di agitazione.
"Che cosa è successo?"
"m-mia madre.... mi hanno chiamato..... ha avuto un incidente....." mentre pronunciavo queste parole, avevo paura che sarei esploso. Non sapevo ne il come e ne il perchè, ma dovevo andare da lei.
"come.... ne sei sicuro?!" rispose lui sgranando gli occhi.
"s-sí.... l'hanno portata all'ospedale qui vicino...." sospirai, mentre i suoi amici mi fissavano preoccupati "dobbiamo andare" riuscii a sussurrare poco dopo.
"merda..... andiamo, subito" disse infine prendendomi per il braccio e trascinandomi fuori.
Salimmo sulla sua macchina passando davanti a un paio di ragazzi che ci fischiarono dietro e ci fecero i complimenti dicendoci che eravamo delle "gnocche da paura". Strano, perché eravamo entrambi due maschi, ma avevo la testa altrove e li ignorai.
Chiusi lo sportello, George mise in moto e partimmo.
"stupidi amici di Alex" disse riferendosi ai due tizi di poco prima. Alex era uno dei suoi coinquilini, piú grande di noi di qualche anno, ma non ci parlavo spesso.
Avevo il cuore in gola e non riuscii a rispondergli nulla. Pensavo a mia madre, e al fatto che sarei dovuto stare a casa stasera ad aspettarla e invece per colpa di qualche cretino aveva fatto un incidente.
Abbassai la testa e misi le dita delle mie mani fra i capelli biondi.
Sospirai. Dallo specchietto notai che avevo delle occhiaie mostruose, tutta colpa di quelle stupide birre, e sembravo un cadavere.
"starà bene, vedrai" disse il mio amico seduto accanto a me al volante per tranquillizzarmi, ma io non ci credetti tanto. Avrei voluto dire qualcosa, anche un semplice verso, qualunque cosa, ma mi limitai a guardarlo rimanendo in silenzio.
Arrivammo davanti all'ospedale, non avevo idea di che ore fossero, dal cielo scuro peró, potevo benissimo intuire che era notte fonda.
Fuori era tutto cosí freddo e privo di allegria, la neve si era accumulata ai margini del marciapede e sceso dall'auto, mi resi conto che forse prima di precipitarmi lí avrei dovuto prendere anche il giubbotto e non rimanere solamente con la felpa.
"entriamo" dissi a George, lui annuí con la testa e restandomi accanto entrammo presso le strutture dell'edificio.
C'era un semplice atrio, con un grande bancone ricoperto da fogli, documenti, penne e un paio di computer, dietro vi era una signorina che indossava un vestito blu e i capelli biondi a boccoli raccolti in una coda.
In preda alla preoccupazione, andai dritto da lei, e se non fosse per il mio amico che mi tratteneva, sarei stato in grado di sembrare un tizio strafatto venuto per assalirla o un maniaco.
"sto cercando.... m-mia madre.... un incidente..." balbettai qualcosa e la ragazza parve leggermente confusa, ma non la biasimavo neanche, nemmeno io ero in grado di capire quello che dicevo.
"stiamo cercando Ellie Parker" disse George al mio posto.
"oh, la signora Parker....." ripetè quasi con mancanza di interesse, cercando il suo nome scrivendolo al computer.
"Scusatemi, ma chi sareste voi?" Domandó, come se non fosse già abbastanza ovvio.
"Io sono suo figlio"
"Io un suo amico" aggiunse George.
"Ho saputo che ha appena fatto un incidente. Voglio vederla"
"Ah, il figlio..... certo, subito"
Ci indicó il reparto al secondo piano, ricordo che cercai totalmente nel panico un dottore a cui rivolgermi, e mi dissero che era in condizioni non molto gravi e che momentaneamente non potevo ancora vederla.
Mi sentii deluso e ancora piú preoccupato, poi George mi abbracció e mi invitó a tornare indietro.
Rimanemmo tutto il giorno seguente ad aspettare in sala di attesa, lui aveva avvisato Alice e Fred, gli aveva detto di non preoccuparsi ma erano venuti ugualmente a trovarci in ospedale.
Fred finí per guardarsi un film sullo schermo del suo cellulare, Alice e George si addormentarono.
I medici mi dissero per l'ennesima volta che non potevo entrare e che se ne sarebbero occupati loro chiamandomi nel caso ci fossero state nuove notizie.
Mi sentivo sbagliato, uno schifo, come se fossi io la colpa dell'incidente.
Mi dissero che molto probabilmente stava tornando a casa dal lavoro, qualcuno stava andando in contromano, ha provato a scansarlo procurandosi ferite sul viso, gambe, braccia e torace. "Niente che non si possa curare" mi disse un dottore per tranquillizzarmi, e per evitarmi un interrogatorio su come avessi fatto ora che lei si trovava in ospedale, risposi che me ne sarei stato da mio padre.
Tutte bugie. Non ho nemmeno idea di dove si trovi, mio padre. Mai una sua notizia, una sua telefonata o una sua lettera.
Non me la sentivo di chiamare dei parenti stretti per avvisarli dell'accaduto, tanto sapevo che a nessuno sarebbe importato realmente. Mi avrebbero detto solo di calmarmi, che gli dispiaceva e che l'avrebbero dimessa molto presto, insomma, le solite cose.
Il senso di colpa mi divorava, mentre osservavo i miei amici appoggiati l'un l'altro sulla sedia con gli occhi chiusi.
Ero stanco, ma non riuscivo a dormire. Rimasi tutta la notte a riflettere e a sentirmi completamente inutile, come se in qualche modo, avrei potuto evitare una simile disgrazia.

PICCOLO TULIPANO🔐❤️Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora