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Quando Simona entra nell'appartamento di Paulo, mi trova seduta sul divano in salotto.

La tv accesa su un programma a caso, il mio sguardo perso in un punto indistinto in un angolo buio del salone, tra le mani il cellulare di Paulo.

Lo aveva davvero lasciato lì dove lo aveva scaraventato, uscendo di casa poco dopo aver discusso, avvisandomi della sua uscita con un'elegante sbattuta della porta d'ingresso.

Poco dopo era arrivata la signora Rosa, che poi aveva accolto Simona e che, per fortuna, non aveva assistito alla lite tra me e Paulo.

Anche se qualcosa l'aveva intuita, dato che era a casa da quasi un'ora e l'avevo semplicemente salutata per il suo arrivo.

Continuavo a rigirarmi il cellulare di Paulo tra le mani, bloccando lo schermo ogni qual volta prendeva luce, mostrando una foto che aveva scelto di mettere come sfondo di blocco.

C'ero io, in una stupida posa con la linguaccia, quando decidevo di rubargli il cellulare perché aveva app di giochi migliori del mio.

Lo avevo sbloccato un paio di volte, inserendo il codice di blocco, un doppio dieci.

Ma, una volta aperto, rimanevo ferma, il dito tremante a sfiorare l'app di Instagram, indecisa sul da farsi.

Perché mi sembrava una bambinata.

Perché mi sembrava stupido.

E perché era una grandissima mancanza di rispetto nei suoi confronti.

Per lasciarmelo lì, tra le mani, significava che non aveva nulla da nascondere, no?

Quindi perché controllare?

O viceversa.

Perché non farlo, se non avevo nulla da temere?

Perché?

Perché non sapevo, se non avevo nulla da temere.

Perché non sapevo se, quella volta, la mia fiducia sarebbe rimasta cieca.

Ed era questo mio dubbio, che mi faceva più male.

Più delle sue parole, più dei suoi gesti, più del suo assenso nell'allontanarmi da casa, per andare da Simona.

"Pensi di rimanere lì a farti friggere il cervello da sola ancora per molto?"

E' proprio la voce della mia amica a destarmi dai miei pensieri.

Mi giro a guardarla, un po' sfocata perché per troppo tempo avevo fissato un punto senza luce, e lei indossava una maglia da palestra fucsia, a tinta unita, e dei leggins neri che ai lati richiamavano il colore della maglietta.

L'avevo chiamata immediatamente, come ogni volta in cui ero in crisi e lei, come sempre, si era precipitata da me, lasciando la palestra un po' prima, quella sera, per venirmi a prendere.

Aveva riempito un paio di borse con la mia roba, e il caricatore del mio cellulare pendeva da un lato del borsone nero, che portava sulla spalla destra.

"Perché mi hai preparato le valigie come se dovessi partire per settimane?", le chiedo, alzandomi dal divano per mettermi le scarpe e andare via con lei.

"PERCHE' TU – comincia a urlare, puntandomi un dito contro – Tu – ripete, abbassando la voce di fronte ad un mio gesto con la mano – Non torni in questa casa finché lui non ti chiede scusa in ginocchio", dice, nervosa, minacciandomi con lo sguardo.

Forse dovevo chiamare Roberta, che mi avrebbe semplicemente fatta ragionare al telefono, senza scatenare una guerra mondiale tra di noi.

Al massimo mi avrebbe spedito le sue chiavi di casa a Torino, invitandomi a stare a casa sua, se proprio non volevo vedere Paulo.

Más que nunca - Paulo DybalaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora