Capitolo 15

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Oliver

Evelyn aprì con lentezza la porta di casa ed estrasse la chiave dalla serratura. Non aveva detto una parola durante il viaggio in auto, limitandosi a stringersi nel giubbotto e giocherellare con la boccetta in vetro che aveva tra le mani. Non avevo osato interrompere quel silenzio assordante neppure per sbaglio, limitandomi a guardarla per accertarmi che non crollasse. Era assorta nei suoi pensieri ed io non avevo la minima idea di come alleviare quel dolore che le avevo letto negli occhi in ospedale.

Accese le luci e si guardò intorno assorta. Era come se temesse che oltre a noi ci fosse qualcun altro in casa. Ero quasi certo che mi avrebbe chiesto di controllare, al pari di una bambina terrorizzata dal buio. Ed era così che appariva ai miei occhi in quel momento: una creatura indifesa. Spaventata. Confusa.

Presi coraggio e con cautela mi feci avanti. Le appoggiai le mani sulle spalle per aiutarla a togliersi il cappotto. Sobbalzò prima di rendersi conto delle mie intenzioni. A quel punto forzò un sorriso ed assecondò i miei movimenti. 

La guardai girovagare per l'appartamento come un'anima in pena per un tempo che parve infinito. Non sapevo cosa fare. Come farla sentire meglio. Avrei voluto che si rilassasse, che parlasse con me. Sapevo di non essere la persona adatta per starle accanto in un momento tanto delicato, c'erano almeno altre dieci persone che mi venivano in mente, ma io ero l'unico lì con lei e sarebbe stato mio dovere confortarla. Come farlo era ancora un mistero.

Mi schiarii la voce. <<Ti va di sederti sul divano?>>.

<<P-preferirei cambiarmi prima. I-in ospedale mi hanno dato dei vestiti puliti perché i miei... i miei erano ricoperti di sangue. Però vorrei indossare qualcosa di mio adesso>> spiegò col fiato corto e a testa bassa. Non faceva che fissare la boccetta di calmante che aveva tra mani. 

Tremava, dannazione.

Le sorrisi, nonostante fossi certo che non l'avrebbe notato. <<Ma certo. Ti lascio un po' di privacy>>.

Annuì. Dopo aver appoggiato la boccetta sul tavolo si diresse verso la cabina armadio. Quell'appartamento non era il massimo in quanto a intimità, perciò mi ritrovai a voltarmi imbarazzato quando la vidi togliersi la maglietta di spalle. Ero più che certo che non le importasse che io la vedessi nuda. Non in quel momento almeno. Dopotutto, non c'era niente che non avessi già visto. Però mi sembrava di approfittare della situazione e del suo stato d'animo. Non avrei potuto far finta di nulla.

Quando tornò da me, mi parve di averla sentita ringraziare. Non fui sicuro se fosse per il gesto e neppure se fosse stato solo frutto della mia immaginazione.

<<Ti andrebbe qualcosa da mangiare?>>. Era piuttosto tardi ma sapevo non avesse cenato. Stava per chiudere la pasticceria quando quegli uomini l'avevano aggredita.

Scosse il capo limitandosi al silenzio. La seguii con lo sguardo mentre andava a sedersi sul divano. Appoggiò la guancia allo schienale e si portò le gambe al petto. Sembrava così fragile. In tanti anni che la conoscevo non l'avevo mai vista in quello stato. Neppure una volta. Era sempre allegra a differenza della sorella. Anche quando le si leggeva negli occhi che fosse distrutta. L'avevo sempre guardata da lontano, senza trovare il coraggio di avvicinarmi e domandarle sinceramente come si sentisse. Ed ora che avrei potuto farlo, me ne stavo in silenzio a fissarla come un allocco.

Mi avvicinai cauto e recuperai dalla spalliera del divano la coperta di lana. Gliela appoggiai sulle gambe e mi sedetti di fronte a lei, soffermandomi a fissarla. Le sorrisi dolcemente sperando in un riscontro da parte sua. Mi guardava inespressiva, tentando di nascondere gli occhi pieni di lacrime. Non me n'ero reso conto ma tra le mani stringeva di nuovo la boccetta di vetro che le aveva consegnato un'infermiera prima di lasciare l'ospedale.

Chiedimi Qualsiasi CosaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora