La felicità non dura per sempre, almeno per noi...

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Questa è la storia di una semplice e umile famiglia.

Mi chiamo Laura, sono una donna di trentanove anni, nata e cresciuta a Milano, ma di origini foggiane.

Li miei genitori si sono trasferiti al Nord in cerca di lavoro negli anni Sessanta, periodo in cui la maggior parte della gente del Sud, scappava dal proprio paese in cerca di fortuna nelle grandi città del Nord. Donna, ma soprattutto moglie e mamma, ho dedicato la mia vita interamente e con grande amore alla mia famiglia, tanto da decidere di lasciare il lavoro (ai tempi lavoravo presso un'impresa di pulizie, lavoro faticoso e poco retribuito), subito appena saputo di essere incinta della mia prima bambina. Decisione forse alquanto stupida e azzardata visto la grande difficoltà che c'è al giorno d'oggi di mantenere una famiglia, con un solo stipendio che ormai non basta più. Ma la nostra giovane età, mia e di mio marito, i grandi sogni e i grandi progetti non sembravano per noi ostacoli da superare con il duro lavoro, pensavamo ingenuamente alla nostra futura vita insieme come :" Pane, amore e fantasia", o meglio ancora "Due cuori e una capanna". C'era e c'è ancora anche il fatto che mio marito Mauro, da vero tipico uomo pugliese, ha sempre preferito vedere la moglie a casa, con i suoi figli o tra i fornelli a preparare la cena, mentre io lo attendevo al suo rientro a casa dal lavoro. Non è mai stato d'accordo che io lavorassi fuori casa. Siamo sposati da tredici anni, dopo un anno di convivenza. Io mamma a tempo pieno e casalinga, lui operaio elettricista, praticamente da quando era poco più che un ragazzino. Finita la scuola di specializzazione, dal suo paese natale, Trani, si è trasferito a Milano in cerca di un'occupazione, che, fortunatamente, visto il suo impegno e la sua professionalità, ha trovato subito, trovando anche me. Grande lavoratore, Mauro è la classica persona che per non far mancare niente ai suoi figli e alla moglie si spaccherebbe la schiena in quattro, lavorando giorno e notte. Abbiamo tre splendidi figli, Alessia tredici anni, avuta prima ancora del matrimonio, ma accettata ed amata fin da subito tanto da farci decidere di coronare finalmente il nostro sogno d'amore: sposarci.

Dopo il matrimonio e la nascita della nostra prima bimba decidiamo di trasferirci nel Varesotto: gli affitti a Milano sono troppo alti per noi. Anche se all'inizio sento un po' di tristezza, senso di solitudine a trasferirmi lontano da casa, dalla mia famiglia d'origine, in un paese dove non conosco nessuno, ma poi riesco ad ambientarmi senza grandi fatiche e, dopo un anno, esattamente tredici mesi dopo, nasce il mio secondogenito: Andrea. Il mio Pulcino, l'ho sempre chiamato così. Ma una cosa che ho nel cuore e che non riuscirò mai a perdonarmi è che quando è nato, non sono riuscita ad accettarlo subito, bensì solo dopo un mese di vita. Troppo giovane, troppo spaventata, avevo la piccola Alessia di appena un anno, mi chiedevo continuamente come avrei fatto ad occuparmi di due creature così piccole contemporaneamente, quando io stessa mi sentivo così piccola e immatura per essere mamma. Gli facevo da mamma, lo cullavo, lo allattavo, lo coccolavo quando piangeva, lo baciavo, ma non riuscivo ad accettare che fosse nato. Poi non so cos'è successo, un giorno all'improvviso quella piccola creatura che mi teneva sveglia notte e giorno nei suoi primi mesi di vita, diventando a volte motivo di litigio tra me e mio marito a causa delle notti in bianco, è diventata la mia ragione di vita, ho iniziato ad amarlo incondizionatamente, tanto da diventare il mio pulcino prediletto. Oramai eravamo una famiglia felice, io mamma felice, due figli, un maschio e una femmina, mio marito con un lavoro stabile e redditizio, una casa tutta nostra, comprata con grandi sacrifici. Moglie e madre amorevole, sempre presente per piccole e grandi necessità familiari. Non ci mancava niente, se non un terzo figlio, così, dopo quattro anni dalla nascita di Andrea, arriva l'ultimogenito della famiglia, Michael, bimbo coccolato, viziato, essendo il più piccolo di tutti i componenti., Amato ed accettato incondizionatamente dai fratelli più grandi, tanto da sentirsi quasi genitori del piccolo fratellino. Siamo una bella e semplice famiglia, unita e serena, con le piccole e grandi difficoltà quotidiane.

Ma la felicità non dura per sempre, o almeno per noi, non è stato così, perché sulla nostra bellissima famiglia si è abbattuta la più grande tragedia che potessimo immaginare.

Tutto ha inizio un mercoledì di fine Primavera. Una giornata apparentemente come tante altre,

Mercoledì 8 giugno 2011

Mio figlio Andrea ha la febbre da cinque giorni e continua a lamentare dei dolori all'addome. Quella mattina, appena si sveglia, gli misuro la febbre e con sorpresa e un po' di preoccupazione constato che ce l'ha ancora a 38°. Preoccupata, decido di tornare di nuovo dalla pediatra. Tra me e me mi ripeto che forse sarebbe il caso di dargli l'antibiotico.

Giunta dalla pediatra Maria Paola C., con mio marito, apprendiamo che la nostra dottoressa non c'è e che al suo posto c'è una sostituta che visita Andrea e decide di fargli un esame del sangue, la PCR, che rileva se ci sono infezioni in corso.

Dall'esame veloce, fatto con gli stick, risulta che il bambino ha tutti i valori ematici sballati. Così decide di mandarci al pronto soccorso, rassicurandomi che è per stare più tranquilli.

In realtà, forse istintivamente, capisco che c'è qualcosa che non va e che la dottoressa forse ha omesso di dirmi cosa.

Arrivati al pronto soccorso dell' ospedale di Gallarate fanno passare urgentemente Andrea ed effettuano il primo prelievo di sangue. Dopo due ore d'attesa arrivano i risultati degli esami.

La dottoressa responsabile del pronto soccorso chiama me e mio marito nel suo studio, con gentilezza ci fa accomodare e con calma ci riferisce quello che due genitori non vorrebbero mai sentirsi dire: " E' probabile che Andrea abbia la LEUCEMIA".

A quella parola grido con tutto il fiato che ho in corpo, l'unica reazione possibile di una madre spaventata.

In un solo attimo mi sento crollare il mondo addosso e inizio un pianto disperato di paura, di rabbia, di rifiuto nei confronti di una malattia a me finora sconosciuta. Non ascolto più il medico: istintivamente mi tappo le orecchie, la mia testa, il mio cuore sembrano lì fermi, non posso credere che mio figlio sia così gravemente ammalato.

Sono disperata, perché so solo, nella mia ignoranza, che la LEUCEMIA è una malattia che uccide.

Non so in quale modo, che cosa fa al tuo corpo, non so in quale organo si annidi, ma ingenuamente so solo che porta verso un' unica strada: quella della morte.

Da quel giorno succede tutto velocemente. Dal pronto soccorso di Gallarate ci trasferiscono all'ospedale San Gerardo di Monza, la più grande struttura ospedaliera in Italia che si occupa di leucemie infantili.

Arriviamo in ambulanza, dopo due ore di viaggio, tra un traffico assurdo, grandine, vento e pioggia incessante.

Ricordo all'arrivo i miei occhi oramai gonfi a forza di piangere.

Andrea spaventato mi chiede perché sto piangendo e, per la prima volta, guardandolo, non ho il coraggio di dirgli la verità. Istintivamente gli rispondo di non preoccuparsi, che ho solo litigato con il papà.

Iniziano così, presso il reparto di ematologia pediatrica del san Gerardo, gli accertamenti di Andrea. Padiglione C , undicesimo piano.

Un reparto sterile, blindato. Guardandomi in giro penso: "Questa sarà la nostra seconda casa".




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