Capitolo 23

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Le palpebre le pesavano come mai nella vita, la luce dei neon sembrava uno strumento di tortura di un'epoca antica e i suoni costanti e trapananti di chissà quale macchinario le tediavano i timpani sempre con più intensità, ininterrottamente.

La vista offuscata le impediva di vedere con chiarezza tutto ciò che le era intorno, che appariva come avvolto da una coltre di nebbia chiara e fumosa.

Era sveglia e le sembrava di aver dormito per molte ore, come mai aveva fatto in vita sua. Eppure c'era un ricordo vago, era certa di essere stata sveglia, aveva parlato con le persone intorno a lei ma loro non la sentivano o forse avevano fatto finta di non sentirla: se non avesse udito così tante belle parole su di lei li avrebbe tutti ritenuti un po' maleducati.

C'era in particolare la voce di un ragazzo, lui era stato lì vicino a lei parecchie volte e le aveva detto di svegliarsi perché voleva vederla in altri film. Non le concedevano una pausa dal lavoro nemmeno per un pisolino lungo... lungo quanto?

Aprì ancora gli occhi, la vista si stava definendo attimo dopo attimo; aveva inoltre qualcosa di rigido e insidioso infilato nelle narici che avrebbe voluto strapparselo di dosso all'istante e la gola le bruciava come a contatto con tizzoni ardenti. Di riflesso mosse un braccio, ma questo a mala pena rispose. Fu come alzare un masso pesante qualche quintale, con un affanno tale da sembrarle uno sforzo degno di una delle fatiche di uno dei grandi eroi della mitologia greca.

Sentì come dei brividi ovunque e solo allora si rese conto di essere sdraiata in un letto d'ospedale... e qualcosa in lei non andava. Non andava per niente.

Voltò lentamente il capo e, poco distante, vide un uomo sulla sessantina che la stava guardando, sdraiato anche lui, con una sorta di ridicolo casco trasparente in testa; la guardò e nel frattempo, senza aprire bocca, allungò la mano verso un bottoncino rosso. Lo premette e lasciò andare il braccio, esausto, sorridendole così tenuamente che sembrò aver utilizzato le poche energie che aveva in corpo per farlo.

Sibilla non riuscì a ricambiare il sorriso perché sentiva che qualcosa in lei non andava, però allungò il braccio nella sua direzione con uno sforzo disumano.
Dalla porta della grande stanza in cui era – insieme, appunto, al signore e altri degenti che non riusciva a vedere – entrò un dottore bardato di tutti i sistemi di protezione disponibili. L'uomo sul lettino fece cenno verso di lei e il medico le si affiancò al letto, parlandole:

"Buongiorno, Sibilla. Bentornata tra noi".

Provò a parlare, ma una fitta intensa le pervase la gola, bruciando e tediando a dismisura, come se le stesse sanguinando dall'interno.

"Ha dormito per due settimane e mezzo" le disse e lei ebbe una sorta di sussulto. Proprio con quel movimento sentì un dolore lancinante alla zona lombare, ma non gli diede troppa importanza: portò lentamente le mani sul ventre e in quel momento colse una strana e terribile luce negli occhi del medico, anche attraverso la visiera e gli occhiali trasparenti.

"Sibilla, lei è stata in coma farmacologico e intubata per due settimane e mezzo: la sua muscolatura è molto provata, ha – purtroppo – una piccola piaga aperta nella zona lombare, ha perso circa sei chili e..."
Sibilla lo guardò sgranando gli occhi: lo osservò ancore e vide molto bene, fin troppo, come il tono da disteso divenne mesto e remissivo, soggiogato a una sorta di strana sofferenza.

"E...?" disse senza fiato, con una voce così flebile da sembrarle irreale di averla ancora: la gola le bruciò da impazzire. Il medicò inspirò profondamente e si avvicinò al letto:

"Mi dispiace tanto, Sibilla..." ponderò ancora le parole da usare "Ha perso il bambino. Il suo fisico non ha retto interamente l'infezione del virus che ha indebolito il suo organismo: è stato un aborto spontaneo. Il suo fisico ha espulso il feto una settimana fa: ha lottato per più di sette giorni, rischiando di mettere a repentaglio la sua vita. Era... era un maschietto. Il Presidente Conte... volevo dire, suo marito, ha chiamato tutti i giorni. Lui lo sa già" prese un profondo respiro, rimpicciolendosi nelle spalle "Mi dispiace... tantissimo".

Fu come sentirsi svuotata di tutto, di ogni dimensione dello spirito, di ogni funzione vitale e ragione di vita. Si era addormentata con un bambino in grembo e si risvegliava con la morte nel cuore, defraudata di quell'anelito di amore tanto cercato, agognato e così già immensamente amato oltre l'umana comprensione, al di fuori dal tempo e dallo spazio.

Suo figlio non c'era più, ed era l'unica cosa a cui riusciva a pensare in quel momento. Forse avrebbe preferito morire in quell'istante, lasciarsi andare lentamente e quello era decisamente il momento migliore. Un virus le stava ancora devastando l'organismo, se si fosse arresa alla malattia avrebbe lasciato quel mondo una volta per tutte.

Ma c'era un «ma», e non era di certo la paura di morire, di addormentarsi per sempre. No, era piuttosto il terrore viscerale di non rivedere mai più Giuseppe e tutte le persone che le volevano bene: sua sorella, sua madre, i suoi nonni e tutte le sue amicizie.

Le sue labbra si dischiusero automaticamente, incontrollabilmente, seguendo la tensione dell'espressione sconvolta che le scavò il volto, deformandoglielo.

Provò a prendere fiato, invano, sentendo il panico pervaderla interamente.
"No, Sibilla, deve respirare" il medico si avvicinò e lei si scostò da lui, rigirandosi mentre sentiva la piaga dietro la schiena sfregare ed irritarsi, soffocando tra tosse e lacrime.

Gli diede di spalle chiedendogli tacitamente di andarsene, rendendosi conto solo più tardi che l'uomo nel lettino accanto l'aveva osservata e aveva scostato gentilmente lo sguardo non appena lei alzò il suo.

Era sdraiato, rigido come un tronco e affilando meglio lo sguardo vide i degenti dei lettini lì vicino assistere alla scena compassionevolmente: l'anziana di fronte a lei stava piangendo.

Si rigirò ancora, tra lacrime e lamenti di puro dolore.

Suo figlio era morto. E non importava che fosse poco più di un feto, poco più di qualche organo accozzato in un ammasso di membra ancora in formazione: era suo figlio, ed era morto. Non poteva esistere dolore più grande di quello e lei non era in grado di sopportarlo.

Si rannicchiò in se stessa, urlando senza fiato, silenziosamente, dilaniandosi la gola e quasi perdendo conoscenza per lo sforzo. Tastò il ventre con le dita e non riusciva a crederci, non voleva crederci.

Suo figlio era morto.

"Mi dispiace" bofonchiò il signore lì vicino e a poco a poco tutti gli altri si unirono in quel plebiscito solidale del dolore umano, vicini alla sua sofferenza come se fossero suoi cari "Mi dispiace" dissero tutti, uno dopo l'altro, con la voce flebile ma nutrita di quella pietas umana che Sibilla, nonostante non riuscisse a girarsi per guardarli uno ad uno, se ne sentì scaldare.

E fu troppo.

Scoppiò tragicamente e inesorabilmente in un pianto più rumoroso, in un lamento tormentato e tellurico, senza vergogna e senza ritegno.

E quale ritegno bisognava conservare? Suo figlio era morto... e niente lo avrebbe riportato indietro.

In quei giorni felici arrivati con teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora