Capitolo 31.

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"Troverò sempre un modo per amarti."
(

Mark Anthony)


Due mesi dopo...

Erik's pov.

«Daniel Wellinghton è il nostro candidato migliore, con ottime referenze nel campo, e un curriculum impeccabile. Sarebbe da sciocchi lasciarselo scappare, no?» spostai lo sguardo tra il mio team, soffermandomi su Kevin Barlow, il vecchio socio in affari del professor Willemor, nonché mio attuale socio.

Lo vidi annuire, mentre un leggero mormorio si elevava tra le persone che in quei lunghi giorni, mi erano stati a fianco giorno e notte, per definire gli ultimi dettagli riguardo l'andamento dello studio.

La morte del professor Willemor era un evento a cui ero preparato da anni. Da quando lo avevo conosciuto, in pratica. Eppure, la sua morte mi aveva sconvolto, e stavo ancora cercando di metabolizzare l'accaduto. Ma non ci si rassegna mai quando una parte della nostra vita, qualcuno di così importante, smette di esistere. Almeno, all'esterno. Sapevo che Jonathan Willemor avrebbe sempre fatto parte di me, in un modo o in un altro.

Non aveva che me, al mondo. E io non avevo avuto insegnamenti migliori, se non che da lui. Il mio mentore, la mia guida, e l'uomo che mi aveva spinto a diventare la persona che ero. E per lui, avrei preso le redini del nuovo studio, portandolo al massimo del suo splendore. Era il minimo che potessi fare per lui.

Quando un coro di approvazioni invase la stanza, e Micheal, uno dei miei migliori architetti, stappò una bottiglia di champagne, l'atmosfera dentro quella stanza cambiò, e finalmente capii di avercela fatta.

Avevo il terzo socio.

Ero ufficialmente al comando dello studio, del mio sogno che prendeva finalmente forma. E in un modo o in un altro, ce l'avevo fatta.

Ero chino su un modellino in legno di uno dei progetti che mi aveva lasciato il vecchio Willemor, quello degli chalet, quando una mano si posò sulla mia spalla, facendomi voltare di scatto, pronto a tirare un pugno.

«Ehi, cowboy, va tutto bene! Sono io, maledizione. Come siamo sensibili.» bofonchiò mia sorella, guardandomi storto.

Sospirai, e mi spinsi all'indietro con lo sgabello, per farle spazio. «Spuntare in casa di altri in silenzio, alle spalle, e senza avvisare, non è un'idea intelligente, Janel. Soprattutto se sono le undici di sera.»

Fece spallucce, a mo' di bambina. «Sei mio fratello. E ho suonato una decina di volte, se proprio lo vuoi sapere. Ma questa casa è così grande... e tu non puoi sentire niente, se decidi di fare l'eremita, e lavorare chiuso in questa camera fino alle undici di un sabato sera di agosto, Erik. In piena estate!» mi scrollò le spalle, scuotendo la testa. «Hai un aspetto orrendo. Da quant'è che non ti radi?» mi prese il viso tra le mani, e mi fece voltare da entrambi i lati. «La barba ti sta malissimo, e dovresti farti una doccia.» poi spostò lo sguardo sulla scrivania, e quando lo riportò su di me, per un momento, mi fece persino paura. «E piantala di bere quel fottuto whisky! Dio mio, che schifo, Erik! Ripulisci questo posto, ed esci fuori da questa stanza!»

Stavo per ribattere che avevo l'età per saper gestire da solo la mia vita, ma lei non me ne diede il tempo, perché iniziò a fare il giro della stanza, raccogliendo le varie cianfrusaglie che si erano accumulate col tempo.

«Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per tua nipote, cazzo!»

Ecco, tipico di Janel. Usare i miei punti deboli per convincermi ad uscire fuori dal mio guscio. E Lexi era decisamente il mio punto debole.

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